venerdì 12 dicembre 2014

Natale a Uppsala

Cosa ho imparato del Natale a Uppsala:

1. Le lucette e i festoni non riescono a vincere l'oscurità, soprattutto se la neve si fa attendere!

2. Nonostante la tradizione sia nata qui (litigano con la Germania per la paternità dell'idea, ma secondo me è irrilevante), trovare un albero di Natale è quasi impossibile.

Scordatevi la plastica! Quando ho detto alla mia coinquilina svedese che avrei comprato l'albero non mi ha saputo indicare un negozio dove poterlo trovare. A un certo punto della conversazione nonsense (una delle tante), ho il colpo di genio di chiedere: ma stiamo parlando di un albero di plastica vero? Sembrava le avessi infilzato il costato con una lancia infuocata. Assolutamente no! risponde. "In casa mia niente alberi di plastica!" Che Odino mi scampi dall'ira funesta degli svedesi tradizionalisti. Ho iniziato la ricerca una settimana fa, pensando che avrei potuto prendere un albero vero e a febbraio andare nella foresta e piantarlo. Beh, sto continuando a cercare...
Pare che agli svedesi piaccia decorare alberi che già esistono (il che ha perfettamente senso) e che comprare un albero sia possibile ma non molto comune.
La deadline per il ritrovamento di un'aghifoglie che sia possibile far passare dalla mia porta è domani. Vi saprò dire!

3. Il "must have" di Natale è il candelabro dell'avvento. In svedese: Adventljusstake.

E' un piccolo supporto di legno con sette candele, assolutamente non vere, ma di plastica a forma di candela con una lampadina sulla cima. Detto così può sembrare kitsch ma non lo è affatto. Vedere i candelabri dell'avvento a tutte le finestre (tutte!!!) è decisamente suggestivo.
Anche i cavallini rossi tipici non stonano in mezzo alle decorazioni (poi dei cavallini rossi ne parliamo!). E se siete degli amanti del super-tradizionale potete costruire con poco sforzo un piccolo supporto con quattro candele che accenderete nelle domeniche di avvento. Una sola candela la prima domenica, due la seconda e via così. Qui esiste una roba del genere in ogni casa.
Vanno comunque pazzi anche per i calendari dell'avvento, quelli con un cioccolatino per ogni giorno.
Ma l' Avdentljusstake è assolutamente irrinunciabile!

4. Santa Lucia è popolarissima anche qui!

Il giorno di Santa Lucia i bambini di tutta la Svezia cantano canzoni con delle candele (grazie a dio finte pure queste!) in testa. Santa Lucia porta la luce nel buio dell'inverno, apre un varco e ci dice che il sole tornerà a trovarci, dobbiamo solo pazientare.

5. Cosa mangiare in Svezia a Natale (e cosa bere!)
Stoccafisso è il grande classico, insieme alle arringhe in tutte le forme e letteralmente tutte le salse.
Esistono il Julost (formaggio di Natale) e il Julkinska (prosciutto di Natale).
E da bere il Julmust per i bambini (succo d'uva di Natale) e la Julöl (birra di Natale) per gli adulti. Se non avevate capito Jul significa Natale! Ed è solo da inizio a fine dicembre che troverete nei supermercati questi prodotti, poi scordateveli!
Se volete cucinare una pasto completo alla svedese o se avete il suocero o il cognato vichingo tra gli invitati e volete fare bella figura, evitate le polpette di cavallo dell'Ikea!
Cucinate un buono stufato di cavolo, un pasticcio di patate e comprate salmone affumicato da condire con l'aneto. Forse non sarà proprio un pasto tipico, ma ci va molto vicino.
Per dolce si può scegliere tra i biscotti o il pane allo zenzero, oppure (e meglio) i Kanelbulle (palline di cannella...letteralmente), delle piccole brioche con la cannella e i confetti di zucchero a forma di girella. Una delizia!

p.s. La settimana scorsa sono incappata in un pandoro esposto nella vetrina di un negozio di cibo asiatico (cosa ci facesse è un mistero imperscrutabile). Era inutile tentare di resistere. Dolci colazioni mi portano verso il giorno dell'aereo per casa.

God Jul!

lunedì 8 dicembre 2014

Ingegneri

Ho bisogno di una pausa seria da un malefico powerpoint che sarebbe meglio imparassi a memoria per evitare l'inciampo imprevisto in un tempo verbale inglese. Nella pausa, riporto un piccolo episodio fresco di giornata.
Domani presento i dati preliminari del mio studio. La platea è composta dai miei colleghi e qualche altro, interessato più al pranzo offerto che ai miei numeri. Ci tengo, anche se non è una gran cosa.
Stamattina passo dall'ingegnere che mi aiuta con una cosa barbosa che non sto a descrivere.
Dico anche a lui del Lunch Seminar (qui Scrocca il Pranzo al Laboratorio si chiama Lunch Seminar!) e lui mi risponde: grazie, verrò senz'altro, cucinerai tu?
No, stronzo!
Io dico che presento il mio lavoro e lui si  proietta in avanti sulla lasagna. Ha scotomizzato la parola Seminar e si è concentrato solo sul Lunch.
La domanda è: se fossi stata un ragazzotto con la barba folta, mi avrebbe chiesto comunque quale manicaretto avrei confezionato con tanto amore?
Qui c'è il servizio catering per tutto, per il più banale degli eventi (come ad esempio la mia presentazione dei dati!!); perché a qualcuno dovrebbe venire in mente che mi metto a cucinare per 20 persone?
L'amara realtà è che, oltre ad essere femmina, sono italiana e lui lo sa. E in questo mondo siamo famosi per tante cose, ma una di queste è senz'altro la pizza.
Gli stereotipi esistono, e non sono solo di genere. Sono anche di cultura. Quindi, nella piccola mente di un ingegnere maschio di mezza età, una donna italiana non può che suggellare qualsiasi occasione con una bella carbonara e una fetta di tiramisù.
A me cucinare piace, tanto. Ma se serve smetto subito!!

domenica 30 novembre 2014

Le mogli della scienza

E' l'ultimo giorno di novembre.
Il mese più difficile. Così mi avevano detto tutti, spaventandomi a morte.
Novembre non è soltanto un mese noioso, dicevano, è il mese più buio dell'anno.
Sentivo stringersi un nodo alla gola ogni volta che qualcuno accennava alle difficoltà e soprattutto alla scarsità di eventi, di qualunque genere.
Sono sopravvissuta. E non ad un mese di novembre qualunque...ma al novembre più buio a memoria d'uomo. Quest'anno niente neve e appena due ore di sole in 30 giorni.
Ci sono state giornate così grigie da poter essere scambiate tranquillamente per notti o crepuscoli senza fine.
Ma ci siamo. Domani è dicembre. La follia natalizia ha preso piede e la luce è arrivata, anche se da un abete addobbato. Ci accontenteremo.
Fuochi d'artificio alle 4 di pomeriggio per dirsi che: abbiamo scollinato!

Ero lì che cercavo un quadratino di prato ghiacciato da dove guardare lo spettacolo e vedo un mio collega che mi saluta da lontano (lo chiameremo Luigi...anche se è brasiliano!).
Luigi è un simpatico ricercatore con due dottorati, un genio sempre al lavoro. Luigi ha una moglie. Stop.
Poco dopo incontro Mario (non si chiama veramente Mario, anche perché è cileno, ma lo chiameremo così).
Mario è un studente PhD con una marea di pubblicazioni alle spalle, è brillante e un po' punk (ci piace dire che noi "fottiamo" il sistema, a volte).
Mario ha una moglie. Stop.
Anche il mio capo con le stelline sui calzini ha una moglie. Siamo andati a cena da lui una sera di ottobre. La moglie, che chiameremo Lena perché è il suo nome, ci ha offerto della zuppa di funghi colti da lei stessa nella foresta quella mattina, e un salmone che è stato senz'altro il più buono mai mangiato in vita mia.
La moglie di Luigi, la moglie di Mario e Lena hanno una cosa in comune.
Sono sposate con la scienza. La scienza, anche se è donna di nome, ha un sacco di mogli e pochissimi mariti (o magari nemmeno uno).

Durante un pranzo in laboratorio assisto alla seguente telefonata (al telefono, la moglie di Mario).
-Sì amore, come sono? Ah, le volevo marroni a dire il vero. Sì, sì. Che numero? Ma ti sembrano abbastanza calde. Sì, amore. Lo so. No guarda, nere no. Non comprarle.
Mario attacca e dice: era mia moglie, mi sta comprando le scarpe per l'inverno.
Lei??? La mia reazione è: occhi fuori dalle orbite, mandibola slogata e un timbro acutissimo che fa tremare i vetri del laboratorio.
Mario prosegue: io non compro mai niente da solo, va sempre mia moglie.
Cos'è, ti hanno tagliato le mani? La mia acidità permea la stanza.

Le ho incontrate tutte queste mogli, prese e portate a vivere al Polo Nord per seguire le carriere accademiche dei mariti. Comprano scarpe per gli altri, vestiti per gli altri, raccolgono funghi, fanno figli.
Le ho incontrate e non sono riuscita a parlare con loro. C'è un muro. Chiedi loro come stanno e la conversazione muore nel giro di trenta secondi. Non ci provano più a dire che oggi di bello hanno fatto la spesa, che hanno portato il bambino al parco, che hanno aggiustato due lampadine.
Restano lì, sedute composte ad interminabili cene in cui si parla, quando va bene, del prossimo congresso e, quando va male, di compliance polmonare.
Una vita al fianco. Della scienza. Incarnata nei loro mariti. Bravi scienziati, bravi uomini anche, ma a volte pessimi mariti.
Luigi rimane in laboratorio tutte le sere fino a tardi, a volte fino alle due di notte. E sua moglie dorme da sola, sempre.
Mario la domenica va in bicicletta con dei colleghi. E sua moglie sta a casa, come tutti i giorni della settimana. Perché ci sono tre bambine con lei.
Il mio capo con le stelline sui calzini, a settant'anni suonati, non vuole andare in pensione, perché il fuoco della scienza arde ancora dentro di lui. E' uno dei più grandi...su questo non c'è da obiettare.
E Lena non l'ha con sé nemmeno ora. Piuttosto che vederlo depresso, l'ha lasciato fare.

Qualcuno si è mai interrogato sulle aspirazioni di queste donne? Loro stesse lo hanno mai fatto?
La scienza non esisterebbe se non ci fossero stati vestiti puliti da mettere la mattina, cravatte abbinate alle giacche per i congressi, bambini lavati cambiati mangiati e portati all'asilo, panini di mezzanotte quando ci sono gli articoli da scrivere entro il giorno dopo e case pulite ad ospitare le cene coi colleghi. La scienza sarebbe per lo meno stata molto più sciatta, stanca e acciaccata senza qualcuno che fa comparire in tavola pane e companatico ogni giorno, che si ricorda di pagare le bollette e prenotare la casa al mare.

Qualche moglie a volte divorzia. Anche dalla scienza.
Ci sarebbe un terzo collega. Lo chiameremo Asdrubale (perché è un nome che fa ridere). Asdrubale è professore universitario qui a Uppsala. Un uomo discreto e divertente, un po' pungente a volte, e preparatissimo.
Come gli altri, pensava di poter prendere sua moglie (prelevandola dal sole di Madrid), piazzarla in mezzo al ghiaccio e continuare la propria carriera senza farsi troppe domande esistenziali.
Dopo un anno, la moglie di Asdrubale ha detto: io ci ho provato, qui fa schifo! Torno a Madrid! Tu fai quello che vuoi!
Ora Asdrubale si fa due settimane qui e due settimane a Madrid, in continuo peregrinare.
Dovrei fargli una foto, ad Asdrubale. Le occhiaie stanno letteralmente sostituendo l'intero volto e quei calzini spaiati...un vero disastro. Asdrubale è perennemente in ritardo (in posto dove il ritardo non è nemmeno contemplato nelle possibilità presenti nell'universomondo) e sbadiglia così tanto da far venire voglia di porgergli un cuscino.
E fate conto che Asdrubale mi sembra comunque quello più pratico e indipendente del laboratorio. Pensate cosa accadrebbe alla scienza se tutte le moglie divorziassero??
Altro che premi Nobel. Sarebbe un gran casino.

Ho realizzato che queste donne non hanno la minima idea di quanto la scienza deve loro. Abbandonate 24 ore con esseri che vanno all'asilo e che ad un certo punto iniziano a parlare lo svedese come prima lingua. In un posto dove fare amicizia è difficile anche quando lavori e non hai figli, figuriamoci così. Dopo un giorno intero tra pannolini sporchi e supermercati, non vorreste saltare alla giugulare di uno che vi racconta che ha scoperto che la ventilazione polmonare provoca una infiammazione più importante nelle zone medie e apicali e probabilmente è tutta colpa dello stiramento dovuto alle pressioni?? Lo vorrei uccidere pure io, che trovo la scoperta affascinante!
Non lo sanno, di essere la base su cui poggia tutto. Ma prima o poi glielo dico.




venerdì 14 novembre 2014

Per iniziare bene la giornata: back to reality

Adesso vi dimostro che qualcuno legge veramente la roba che scrivo!
Una mia amica (che rimarrà nell'anonimato) legge il post di ieri sul curriculum finlandese e mi scrive così:

Il finlandese ha quattro figli. Lo mette sul curriculum.
Uuuuuu, che bravo ! Bello, un uomo che ama il suo lavoro e che ci dice che ha anche la gioia di ben quattro figli.

Ma chi cacchio glieli tiene quattro figli?
Dove li piazza la mattina?
Chi li porta in piscina alle cinque?
Chi ha interrotto la carriera quattro volte per farli ?

Ok, la Finlandia è un altro pianeta ( anche se poi, come tu mi accenni dalla Svezia, tutto il mondo è paese).
Ma CI MANCA SOLO che qui in italia gli uomini mettano la situazione familare sul CV.
"Sposato, due figli". Ma che carrrrino, fedele e con dei bei bambini.
Per lui è pure una nota di merito.


Per fortuna che qualcuno mi costringe a vedere le cose da un altro punto di vista.
Avevo pensato fosse bello che uomini e donne sui curricula scrivessero le stesse cose. "Ciao sono una donna, ho tre figli e mi piace coltivare le verdure indoor." "Ciao sono un uomo, ho due figli e vado a pesca nel ghiaccio tutte le domeniche da novembre ad aprile."
Insomma, che ci fosse una parità, apparente o meno, da quel punto di vista.
E credo ancora sia comunque una cosa da tenere in considerazione.
Ripeto che in Italia gli uomini non sentono il bisogno di specificare il proprio stato di famiglia e non gli viene richiesto, le donne invece sì e molte volte sono obbligate a dichiararlo prima dell'assunzione.

Però quello che la mia anonima amica mi scrive è una versione interessante della storia.
Non mi ero posta il problema. Per un semplice motivo. Ero convinta che un paese che non ha nemmeno la distinzione tra maschile e femminile nella lingua, non l'avesse nemmeno in ambito lavorativo.
Ma come potevo esserne sicura?
Facile. C'è un'attività che si chiama "spionaggio informatico" e che con i tutti i social network che abbiamo è diventata accessibile anche a una ignorante tecnologica come me.
Non me ne vanto, ma per il bene della causa ho fatto questo: individuato la moglie (finlandese pure lei), cercato informazioni sui siti specializzati (varie ed eventuali piattaforme professionali) e speculato sull'età dei figli attraverso fotografie spiattellate ovunque.
(Io l'ho detto che i social ci uccideranno tutti! Pensate quello che può fare qualcuno che davvero sa usare il computer!)

Ecco il risultato della ricerca.
La moglie è una bellissima donna. E' un medico, intensivista. I figli li ha fatti uno dietro l'altro manco fosse una competizione con premio finale. Bellini pure i figli. Ha fatto ricerca all'Università finlandese. Ci sono sue pubblicazioni per altro molto interessanti.
Ma...data dell'ultima pubblicazione: 2005. Da quel momento sparizione totale dalla faccia del mondo scientifico. Da lì in poi fotografie con i bimbi in braccio.
IL finlandese è diventato professore all'Università di Uppsala, LA finlandese è diventata casalinga.
Era pure campionessa di Takwon-do fino al 2004.

Ok, cara amica mia anonima, scusami per l'eccesso di ottimismo. Ho esagerato. Cercavo il mio raggio di sole giornaliero.

Posso dire che stamattina alle 8 ho visto ben due papà che pedalavano scarrozzandosi in giro i marmocchi? Mi sono immaginata che le mamme fossero a una riunione con i delegati giapponesi dell'azienda partner per discutere la fusione e che fossero uscite presto senza neanche preparare la colazione. Dici che ho fatto male?


giovedì 13 novembre 2014

Per cominciare bene la giornata: rabbia e speranza a colazione

C'è bisogno di energia. La mattina.
Sopratutto quando le ore di luce diventano cinque e mezzo su ventiquattro e ci si sente sempre un po' assonnati.
Mentre facevo la mia colazione da ottomila calorie pensavo a una cosa che mi aveva detto una mia amica. La mia amica è un medico.
Parlava del suo capo, che è un uomo, ovviamente.
Durante un giro visite il capo le dice testuali (o più o meno testuali) parole: "La medicina sta perdendo tutto il suo prestigio! Ormai non si tratta ché di lavoro d'ufficio. Infatti ci sono più donne che uomini che esercitano la professione. Voi siete brave, col lavoro d'ufficio."
Ogni volta che ci penso, una rabbia cieca mi pervade, che rischio di polverizzare quello che ho tra le  mani come Wonder Woman. E stamattina avrei mandato in pezzi il mio latte d'avena con il muesli alla frutta (immaginate un frutto...nel mio muesli c'è!).
Ringrazio il capo della mia amica (esimio professore di un'università e di un ospedale che non si possono dire) per aver dato il giusto sprint alla mia giornata e avermi fatto pedalare fino al laboratorio senza neanche appoggiare il culo sulla sella.
La cosa che mi interesserebbe approfondire con questo povero vecchio accademico senza una vita sociale è la seguente: la medicina ha perso il suo prestigio e quindi è diventata accessibile alle donne, o le donne hanno rovinato la medicina in modo irreparabile? Siamo causa o conseguenza?
Immagino, conoscendo la tipologia di soggetto come le mie tasche, che nella sua personale visione noi povere segretarie siamo la conseguenza. Farci diventare la causa vorrebbe dire ammettere una certa capacità di azione da parte nostra (la cosa che più spaventa al mondo...l'azione).
Ogni tanto mi viene l'idea di andare sul letto di morte di tutti questi baluardi della scienza e sussurrargli all'orecchio "al tuo posto adesso c'è una donna", per vederli morire arrabbiati quanto sono stata arrabbiata io in questi anni.
Ma la vendetta non è l'obiettivo (me lo ripeto in modalità mantra per eliminare dalla mia fantasia le fiale di Guttalax nel caffè, le gomme della macchina tagliate o le uova spalmate sul parabrezza del motorino).

Per raddrizzare la giornata senza ridurre l'energia ci vuole qualcosa di buono, la visione anche solo di un piccolo passo per uscire dall'oscurità (in tutti i sensi, lasciatemelo dire).
E allora, appena arrivo al lavoro cerco il curriculum di un professore che si è detto interessato a una collaborazione. Pareva sincero nel propormi di fare quattro chiacchiere sul glicocalice (io non ho mai fatto quattro chiacchiere sul glicocalice con nessuno...forse solo perché nessuno me l'ha mai proposto).
Nel curriculum di questo finlandese dall'accento inglese un po' indecifrabile (immaginatevi che bei misunderstanding tra recettori, cellule e mediatori) c'è scritto che è un maschio e che ha quattro figli.
Solo nei curricula delle donne avevo visto dichiarato il numero di figli, prima. E non era certo per vantarsene. Era per mettere le mani avanti. Qualcuna dichiarava pure di avere dei genitori pronti a fare i nonni a tempo pieno; tanto per mettere nero su bianco che i figli non sarebbero stati un impedimento allo svolgimento del lavoro (e non stiamo parlando del posto fisso alla NASA per progettare missili da mandare su un pianeta dal nome sconosciuto).
Vedere che il signor Finlandese ha scritto che ha 4 figli mi è sembrato bello. Paritario. E mi è anche sembrato che il fatto di averne così tanti fosse per lui un vanto, non un handicap. Come a voler dichiarare di essere una persona realizzata anche fuori dall'ospedale.
Ha pure scritto di essere un maschio. Questo è peculiare.
Avrei due motivi da proporre come soluzione del rebus.
1. I nomi finlandesi non si capisce se sono maschili o femminili (lui si chiama Jyrki!!!).
2. Il finlandese è una lingua senza genere.
Non esiste lui e lei, bello o bella. Diciamo che in finlandese è tutto BELLUM (corrispettivo latino del neutro???), non importa se abbia le ovaie o i testicoli.
Ci sarà un motivo allora se la Finlandia è molto più avanti della Svezia nel percorso verso la parità di genere? Sarà perché nessuno si interessa di sapere se sei maschio o femmina quando si parla di te?
Intanto io aggiungo al mio curriculum che sono femmina (mica che non l'avessero capito!).

Vi rimando ad un sito molto molto bello...
Si parla di parità e lavoro e chi lo scrive ha molto talento ed esperienza.

Keep sharing ideas!

http://laboratoriodonnae.wordpress.com/2014/08/31/racconti-di-unaziendalista-femminista/

mercoledì 12 novembre 2014

La memoria dei migranti

Sono passati tantissimi giorni. Ma il tempo, anche al Nord, si corrode al contatto con l'aria.

Sto pensando alla memoria. Non più a quella meraviglia psicologica del picco di reminiscenza (vedi post dedicato). A una memoria più grande, una memoria sociale.
Si raccoglie dentro ai gesti e alle parole e svela la nostra provenienza.
Ho conosciuto poche persone che non potessero dichiarare con certezza da dove venissero. Situazioni al limite, più uniche che rare. Madre e padre di paesi diversi, fare la spola da qui a lì per i primi 30 anni di vita. Oppure genitori diplomatici, che inseguono la carriera tra paesi mai sentiti nominare nel Sud Est Asiatico.
Queste poche persone senza una vera provenienza sono diverse da tutte le altre. Si comportano in modo unico, influenzato da ambienti troppo diversi tra loro per lasciare il segno. Una babele serena, in cui tutto ha lo stesso peso e mantiene la neutralità del territorio.
Le ho un po’ invidiate queste persone, prima di diventare un migrante.
Sì, perché sono un migrante. Qualunque cosa ne dica chi abusa della parola.
Ho cambiato paese per una ragione che non era un viaggio o una vacanza. Quindi ho migrato (o sono migrata…io la vedo una cosa più attiva che passiva, ma ognuno poi deciderà se migrare o essere migrato). Punto.
E mi sono accorta che la memoria è tutto il mio bagaglio.
Ogni cosa che ricorda la mia provenienza rappresenta quello che ho, da offrire e da difendere.
Così come me migliaia di altri.
Mi sono chiesta se smetteremo mai di aver paura della memoria degli altri.
Se avremo la decenza, prima o poi, di accettare che altri portino con se altre storie, diverse dalle nostre, né più né meno belle.

Sembra una cosa molto scontata, ma la memoria non ce la siamo scelta.
Né quella socio-culturale (se vogliamo chiamarla in un modo così brutto), né quella personale. Ci sono delle cose che ti rimangono stampate in testa senza un motivo ben preciso, non hai selezionato le informazioni all’ingresso del cervello. In quella macchina tritatutto che abbiamo in testa, alcune cose scivolano e altre invece si appiccicano.
Chi lo sa perché mi ricordo quel giorno di novembre dell’anno scorso in cui ho comprato due cavoli al mercato e faccio fatica a mettere a fuoco due immagini consecutive del giorno del mio ultimo compleanno. La memoria non si sceglie. E non si scelgono neanche le “tare” (passatemi il termine) culturali che ci porteremo appresso per sempre. Tipo cosa? Tipo l’accento bergamasco che esce anche in inglese se ci si arrabbia. Tipo la camminata da montanari incazzati. Tipo l’amore incondizionato per le torte salate. Tipo la necessità di avere musica intorno. Tutto è derivato dal posto e dalle persone con cui ho vissuto.
Nessuna di queste cose l’ho scelta. E lei, la memoria, non censura niente. Prende, trita, impasta e inforna. Il prodotto finale può piacere o meno, ma è più del 50% di me stessa.
E se qualcuno ci venisse a dire che essere italiani (o svedesi, o siriani...) non può essere motivo di orgoglio, perché non se ne ha il merito? Se ci dicessero la cosa più ovvia del mondo, cioè che il posto in cui siamo nati è il risultato del più puro caso?

Ecco, ve lo sto dicendo.

venerdì 24 ottobre 2014

Come sopravvivere all'inverno svedese senza prendere le tue vitamine (in 5 pratiche mosse)

E' venerdì. Lo è anche un po' per me che qui al Nord vado avanti a botte di belle notizie e incomprensioni linguistiche.
E' una giornata un po' così. Col cielo basso basso, la pioggerella che ti inzuppa senza che te ne accorgi e la bici che sembra avere le ruote con la colla sopra.
Un post leggero è quello che ci vuole.

Gli articoli che spiegano le cose a punti, o mosse, o consigli numerati mi hanno sempre fatto ridere.
Come se l'oggettività di un problema potesse essere scomposta e ordinata.
Ora capisco perché si fa così. Perché è divertente!

La prima mattina a Uppsala facevo colazione con la mia coinquilina.
Tra una fetta di pane e marmellata e una sorsata di tè verde, mi dice: "Dobbiamo cominciare a prendere le nostre vitamine, o tra un mese saremo depresse!"
Vitamine? ho chiesto. Sì, la vitamina D. Importantissima. Se non la prendi stai malissimo.
Una volta per tutte a chiunque lo stia pensando: la vitamina D non è nel latte! E nemmeno negli yogurt che mangia la Sandrelli perché ha l'osteoporosi. La vitamina D è nel sole. Nel senso che serve il sole per farla. Punto. E a quanto pare ha un legame stretto anche con l'umore, la joie de vivre e quelle robe lì.
Siccome qui il sole scarseggia per almeno 8 mesi l'anno, mi ero rassegnata a comprare un integratore e ha ingerire due pillole al giorno almeno fino a marzo. Non volevo diventare più meteoropatica di quanto già non sia Swedenless.
Ma si sa che la mia testolina elucubra anche troppo, così mi sono detta: ma figurati se mi devo mangiare le pastiglie per star su con l'umore. Io non le prendo le MIE VITAMINE!
Sarà stato un ultimo barlume di ribellione al sistema, forse. Fatto sta che di fronte alla farmacia ho girato sui tacchi e me ne sono andata a casa.
In realtà non è andata proprio così. In realtà sono entrata in farmacia, ho preso le vitamine, sono andata a pagare alla cassa, ma la mia carta di debito non ha funzionato. Il display diceva Error!
Strana cosa, perché ha funzionato benissimo sia prima che dopo. Salvata da un Error di sistema.
Fatto sta che non ho più riprovato a comprarle. Ho preferito sfidare il nord.

Ho fatto un rapido sondaggio e ho racimolato questi cinque consigli da chi è più esperto di me in fatto di inverno, depressione da meteo e solitudine imposta dalle condizioni meteorologiche.
Ometto che dovete mangiare come si deve! ça va sans dire...

1. Dormi!
Dormi otto ore filate. Rigenerati. Rivoltati nel piumone. Riposa le stanche membra.
Ma fallo solo di notte. Il buio ti farà venire sonno alle 4 del pomeriggio. Resisti! Non cedere al riposino pomeridiano, o il tuo corpo impazzirà. Avrete tutto il sole di mezzanotte dell'estate per invertire il ciclo sonno-veglia. Non iniziate a ottobre o arriverete a primavera con un'insana voglia di far fuori i tuoi vicini.
Andate a letto presto durante la settimana, sgarrate solo nel week end, ma senza esagerare! Siate irreprensibile col vostro corpo. Comandatelo a bacchetta!

2. Fai sport!
Qui è un must. Tutti hanno l'abbonamento alla palestra. Tutti vanno in bicicletta. Tutti vogliono battere i record di qualche cosa.
Tranquilli, potete evitare l'ironman o il triathlon su un piede solo, però dovete muoverti!
Mantenere i muscoli attivi. E lo dovete fare tutti i giorni.
Munitevi di bicicletta, andate al lavoro con quella (si montano le gomme da neve anche sulle bici, lo sapevi?) e due o tre pomeriggi a settimana andate in palestra o, meglio ancora, in piscina. Basterà e ne guadagnerete in fiato e autostima.
Le endorfine che producete da soli sono gratis!

3. Pranza fuori!
Ma che sei scema? A meno venti devo pranzare? Ok, potete pranzare indoor ma prima o dopo il pranzo usate la tua pausa per fare un giretto.
Bastano 10 minuti. Uscite dal posto di lavoro, camminate per 10 minuti col sole (quando c'è) in faccia e poi tornate al lavoro. Avete presente la vitamina D? Al vostro corpo bastano 10 minuti di luce al giorno per produrne la quantità giornaliera che vi serve.
A gennaio l'unico momento in cui sarà possibile avere 10 minuti filati di luce sarà la pausa pranzo. Quindi tutti fuori!

4. Ridi!
Mi direte che ho scoperto l'acqua calda, ma non è un consiglio stupido questo. Anzi. Forse è l'unico che vale davvero qualcosa. Gli svedesi ridono poco. Rispetto agli italiani, intendo. Rispetto ai finlandesi, a detta loro, si spellano le ginocchia a furia di pacche gioiose. Ma a voi sembrerà che non ridano mai. Quindi...ridete voi per loro. Non si offenderanno, al massimo li contagerete con il buonumore. Ridere sempre. Quando qualcuno fa una battuta, quando vedete una cosa buffa o quando per strada a causa del ghiaccio cadrete come pere cotte.
Ma ridete a voce alta, però, eh. Che la risata se non è a voce alta non riverbera, non risuona, non si espande. Ah-ah-ah

5. A metà dell'impresa regalati un po' di caldo.
Lo fanno tutti. Tutti gli svedesi fanno le vacanze in inverno. Secondo voi perché? Perché nemmeno loro riescono a resistere al freddo così a lungo.
La maggior parte di loro vola verso l'Italia o la Spagna. Beh, fatelo anche voi. Non c'è bisogno di andare alle Maldive o nell'emisfero australe alla ricerca dell'estate.
Prevedete un rientro intelligente per Natale. O una gita da qualche amico in qualche città un po' meno meteorologicamente ostile e rimaneteci qualche giorno. Godetevi un po' di mare non ghiacciato, un mare che ha ancora le onde. Non fatevi fregare dale celebrazioni natalizie svedesi, così fashion! Natale con i tuoi, non è solo un proverbio, è un dogma salvavita!

Allo scioglimento dei ghiacci darà notizia dell'efficacia dei miei stessi consigli.
Al momento l'umore è alto, il vento in poppa e la vita facile.
Però... se dovessi cominciare a scrivere che la vita fa schifo, venite a prendermi!

martedì 21 ottobre 2014

Numeri - parte 1

La prima volta che ho pensato alla disuguaglianza di genere nella mia professione ero ad un congresso.
Sono un medico. Anche se credo che nessuno dei lettori ne sia all'oscuro, lo ricordo (mai snobbare gli eventuali fans disinteressati).
Credo di poter dire, anche senza numeri, che ad un livello meramente quantitativo, in medicina abbiamo raggiunto e superato gli uomini.
Fare il medico, anzi essere medico, non conviene più. Niente più stipendi stellari, molti più rischi legali e ci si spacca la schiena come o più di una volta.
Gli uomini hanno semplicemente spostato la propria attenzione verso qualcosa di più redditizio o comunque di meno faticoso. Così da qualche anno, la quota di studentesse che provano il test di ammissione è superiore al 50% del totale.
Cosa succede poi una volta entrate nel magico mondo della medicina lo lasciamo ad un futuro post. Lo riservo per un giorno in cui avrò rabbia da smaltire. Oggi sono alle prese con la statistica e preferisco parlare di meri numeri. Sono talmente eloquenti che potrò risparmiare la rabbia per un altro momento.
Dicevo, a livello numerico, la professione del medico è paritaria.
E la professione del ricercatore medico?
Molti medici che fanno ricerca, anzi quasi tutti, fanno anche attività clinica. Fare solo il ricercatore sarebbe infinitamente meno redditizio e, potendo contemporaneamente esercitare, si decide sempre per il piede in due scarpe e sono quasi certa che, come per tutto il resto, significhi fare tutto malissimo.
Chi sono i ricercatori medici?
Fino a qualche anno fa non lo sapevo. Poi ho cominciato a girare i congressi, prima da studente in cerca di gadget e poi da neo-professionista (se mi passate il termine), in cerca di vere informazioni, illuminazioni, idee.
Ho continuato a portarmi a casa solo gadget. E questo può far intuire che le grandi rivelazioni in medicina non hanno le proporzioni di ciò che si pubblica. Anzi, si pubblica di tutto. Vera e propria carta igienica. Ma anche per la speculazione sulla ricerca è meglio dedicare un intervento separato, rischierei di non finire mai più la mia pausa pranzo.
Ero al congresso, dicevo. Improvvisamente noto una cosa, uno sciocco particolare a cui, chissà come, non avevo mai prestato attenzione. I relatori erano solo uomini.
Cinque giorni di congresso e nemmeno una donna al microfono. Eppure di donne in platea ce n'erano.
Sono tornata a casa confusa.
Con il passare degli anni e dei congressi ho capito che, non solo erano sempre uomini a presentare fantasmagorici lavori per la maggior parte inutili, ma erano anche sempre gli stessi. E questo è un problema italiano (e non solo) che si chiama baronato, e pure questo andrebbe analizzato in altra sede.
Torniamo al fatto che c'erano soltanto maschi a parlare, non sempre bene, di scienza.
Al tempo in cui mi resi conto della discrepanza, ingenuamente, pensavo che la ricerca fosse un mondo fatato, giusto, equo e pieno di gente che passava le notti al microscopio o ad osservare il comportamento dei topi per amore dell'unica grande e provvida Mamma Scienza.
Invece è un mondo oscuro, ingiusto, assolutamente iniquo e pieno di gente che passa le serate a sbafarsi aragosta al ristorante a spese di qualche casa farmaceutica o, quando va peggio, dei contribuenti.
Quando facevo notare ai miei colleghi (maschi per lo più, ma anche parecchie femmine) che c'erano solo uomini a fare i relatori ai congressi, facevano spallucce.
"Saranno più bravi!" era la risposta. Io strabuzzavo gli occhi "Ma non c'è alcuna evidenza scientifica che sia così!". Chiunque liquidi la questione della disparità di genere con un "gli uomini sono probabilmente meglio a fare questo e quello", sappia che verrà sempre e intensamente spernacchiato dalla sottoscritta. Che diavolo di risposta è?
Sarebbe come dire questo: prendo due gruppi di pazienti, a uno do la medicina e all'altro no. Il gruppo che prende la medicina muore meno. "Probabilmente sarà perché gli altri avevano più voglia di morire!". Ecco, pensare che la questione di genere sia la conseguenza di una differenza di capacità ha esattamente la stessa evidenza scientifica del mio esempio.

Ma dovevo parlare di numeri.
Nel 2013 alcuni importanti articoli sull'ineguaglianza di genere nella ricerca scientifica sono comparsi su riviste di settore in tutto il mondo. Merito, forse, dell'ondata di femminismo che (con buona pace di tutti quanti) sta attraversando il mondo intero.
La più autorevole pubblicata da Nature (per chi non fosse del settore: una delle due riviste scientifiche più influenti al mondo). Nature ha pubblicato a riguardo un numero speciale chiamato: Woman in Science. Cercatevelo, è assolutamente alla portata di tutti i backround culturali.
I numeri di Nature sono eloquenti.
Innanzitutto le donne studiano. E questo è un fatto. Andiamo a scuola quanto i nostri compagni maschi. Ci laureiamo in uguale proporzione e in alcune aree di ricerca in particolare ci dottoriamo con la stessa frequenza. Una significativa differenza c'è solo in alcune facoltà ancora appannaggio degli uomini: ingegneria, fisica, astronomia.
Cosa succede dopo? Dopo ci spegniamo. Da qualche parte tra il dottorato e un impiego postdoc o un'assunzione come professore.
Le donne che provano una carriera accademica sono meno di un quarto degli uomini e meno del 15% per ingenerai e astronomia.
Le donne che la ottengono sono meno di un terzo di quelle che ci provano. Fatevi voi i vostri conti.
La ragione sembra in qualche modo legata alla famiglia. La stramaledetta famiglia tradizionale, in cui è la donna che rinuncia al proprio lavoro. Quella famiglia che in molti difendono a spada tratta. Proprio lei.
Le donne con figli mollano prima il lavoro nella ricerca e lo fanno con una frequenza proporzionale al numero dei figli. Gli uomini invece si riproducono senza che questo, apparentemente, abbia il benché minimo impatto sul lavoro. (Gli uomini che mollano sono il 20% del totale, che abbiamo o no figli il risultato non cambia; per le donne con i figli la percentuale arriva a più del 40%)
Eppure non è tutto qui, perché anche le donne senza figli e marito emergono come penalizzate.
Mi hanno impressionato le parole di Hanna Valentine, ricercatrice della Stanford University, "una delle cause degli abbandoni della carriera accademica da parte delle donne è che non trovano in questo mondo niente che somigli loro". Vale a dire altre donne. E sole è difficile andare avanti. Così molliamo, lasciando sola qualche altra che mollerà e via così.
Solo il 34% delle assunzioni per un primo lavoro come postdoc è femminile.
Un'interessante ricerca di Jo Handelsman ha dato qualche grattacapo ai vertici delle università americane. A 27 professori (maschi e femmine) venivano sottoposti due curriculum falsi di due aspiranti postdoc con le stesse identiche caratteristiche. Uno maschio e una femmina. Alla fine della valutazione la maggior parte dei professori si diceva interessato all'assunzione di John ma non di Jennifer e le poche volte in cui anche Jennifer veniva virtualmente assunta prendeva 3000 dollari in meno di John all'anno.

Questo è solo un assaggio. Non è nemmeno l'aperitivo. E' la tartina che rubate di nascosto dal vassoio quando vostra madre non sta guardando.
C'è una valanga di roba da leggere al riguardo. Altri mille e mille numeri.
E la cosa divertente è che nessuno si è preso la briga di analizzare i numeri della ricerca medica. Si parla sempre di biologia, ecologia, ingegneria, astronomia. I medici donna non si sono voluti sporcare il camice rovistando nel cesto della spazzatura. Eppure sono convinta che troveremmo dati ancora peggiori, un baratro di disuguaglianza.
Parlo alle mie colleghe! Dovremo farlo, sporcarci il camice dico. Sarà necessario. Quindi state pronte!

Lo so che i numeri sono deprimenti. Poco fantasiosi, a volte possono sembrare addirittura vuoti di significato.
Ma sono l'unico modo di tappare la bocca a chi dice che "magari gli uomini sono più bravi!"
Appena ho un po' di tempo in più vi prometto una bibliografia completa sull'argomento.
Perché c'è da fare un gran lavoro.
Ne volete sentire una bella?
Sono stata a un congresso anche in Svezia, la settimana scorsa.
Indovinate quante donne c'erano a parlare di scienza.
Neanche una.
Mi auguro vi stiate già rimboccando le maniche.



giovedì 16 ottobre 2014

Tabù


Le parole che non si possono dire. 
Sono solitamente contraria a bandire le parole. Mi piacciono tanto!
Però credo che il nostro modo di esprimerci abbai molto a che fare con la nostra cultura, proprio con il recondito. Ci sono espressioni e giri di parole barbaramente offensivi che abbiamo traslato di significato poco più in là e continuiamo a utilizzare, o che sottendono una mentalità becera e ignorante, ma che passano allegramente inosservati.
Ecco ce ne sono alcune, di espressioni, che non mi vanno giù e che credo dovremmo smettere di pronunciare. Sarebbe già un grande passo avanti notarle. Fatelo! Notatele! Notate quelle espressioni che umiliano senza farsi notare e poi me le potreste anche scrivere. Potremmo persino scriverne un bel dizionario. Il dizionario dei tabù.
Per quel che riguarda la disuguaglianza di genere, ne ho almeno una ventina.
Ve ne scrivo quattro, quelle che mi stanno più antipatiche in assoluto.

1. Isteria/Isterica.
Ci hanno fatto anche un filetto romantico da quattro soldi che qualche mia amica si ricorderà benissimo, ma l'isteria è una roba seria! Anzi, in realtà l'isteria è uno scherzo, perché non esiste.
Veniva indicata comunemente come isteria...qualsiasi cosa non sapessero diagnosticare Freud e compagni. Ovviamente in una paziente donna. Terapia: rimozione dell'utero (Hysteron), che in quanto organo che contiene la femminilità (intesa come l'essere femmina) portava via con sé tutto il male.
Oggi si dice che una è isterica quando è nervosa, agitata o di mal umore. Difficilmente lo sentirete dire a un uomo. E molto probabilmente lo sentirete dire abbinato alla frase "Sarà mestruata!", tanto per tornare all'utero causa di tutti i mali.
Vi sembrerà innocuo, ma ho sentito un esimio professore pochi anni fa dire di credere molto nell'esistenza dell'isteria, che si tratta di una malattia molto seria e pazzi quelli che l'hanno cancellata dalla lista delle malattie mentali! 
A me, questo tizio, primario di neurologia di un ospedale di cui non posso dire il nome, è sembrato tutto tranne che innocuo. 
Non è per fare la solita corvaccia nera del malaugurio...ma è un attimo che ci ritroviamo senza utero! 

2. Sei una femminuccia/You hit like a girl.
Qualche mese fa un'amica mi ha mandato un video formidabile! Un video pubblicitario della Dove (a volte le pubblicità sono meravigliose, mannaggia a loro!) che focalizzava la stupidità di questo modo dire.
"Sei una femminuccia!" si dice ai maschi, chiaramente, e se non ve ne eravate accorte è un'offesa.
Quindi essere una femmina è un'offesa. In inglese si dice You hit like a girl (picchi come una ragazzina), o You run like a girl, o You swim like a girl. Tutto per dire che una ragazza corre, nuota e picchia peggio di un ragazzo. Nella maggior parte dei casi sarà pure vero. Ma allora perché non dire picchi come un vecchio, corri come un handicappato? Perché sarebbe assolutamente discriminatorio! Non si può fare!! E sono d'accordo. Ma perché io posso essere tranquillamente un termine di paragone di inferiorità? Senza contare che non corro peggio di tutti i maschi del mondo e sono sicura che picchio meglio di molti, fosse anche solo per una questione di rabbia repressa. 
Spieghiamo ai bambini che si può essere più originali. Si può dire "Picchi come Gandhi", oppure "Corri come un pesce" e "Nuoti come un mattone".


3. Cosa ci fate qui tutte sole?
Questa credo sia la frase che mi fa più imbestialire di tutte le frasi del mondo. E' un concentrato di maschilismo bigotto da società patriarcale paleolitica. Ed è universale. Esiste in inglese, in svedese, in spagnolo, in francese...e temo anche in mandarino.
Quante volte vi è successo di essere con delle amiche a bere un caffè e si avvicina un conoscente che vi dice questa frase? Qualcuna, sicuramente. 
Faccio l'analisi più breve che posso. 
Il fatto che siamo in cinque, sei, sette, otto...non conta niente. Finchè non c'è un uomo con noi siamo sole. Una donna senza un uomo è sola. Corri a sposarti!
Sposati perché hai bisogno di protezione, da cosa? Non ha importanza. Da tutto!
E quel "cosa ci fate"? Magari state bevendo l'aperitivo, o facendo una passeggiata, ma niente ha senso senza un uomo vicino. La vostra stessa vita non ce l'ha. L'unica soluzione è avere sempre semprissimo un uomo al tuo fianco.
Chi si avvicinerebbe a un gruppo di uomini a chiedere: cosa ci fate qui tutti soli?
Beh, provate! Solo per vedere l'effetto che fa. 
Volete che ve lo dico? Vi tolgo la sorpresa? Va bene, dai! Mutismo e sbigottimento. Andate e diffondete il verbo.

4. Ti stai facendo bella per uscire?
Ma sei stronzo? Questa dovrebbe essere l'unica risposta possibile. Invece sorridiamo impacciate. A volte non ci stavamo facendo belle, ci stavamo facendo la doccia e volevamo mettere un maglione dolcevita e jeans rotti sul ginocchio; ma come facciamo a deludere le aspettative.
Di solito è una frase che vi sentite dire dal vostro compagno, fidanzato, marito, amico di letto...chiunque sia autorizzato a sbirciare nel vostro bagno. E questo crea molti ordini di problemi. 
Il primo è che se mi devo "fare bella" significa che prima non ero un granché.
Poi...se mi stavo facendo bella per davvero, adesso mi sento pirla. Uno non ti dovrebbe vedere mentre ti spalmi la faccia di una roba marroncina e spennelli qua e là. Dovrebbe vedere il risultato finale e il fatto che abbia colto sul fatto la preparazione fa l'effetto dell'apertura del forno a metà della cottura della torta margherita, affloscia.
Se invece mi stavo solo schiacciando un brufolo, mi sento in dovere di fare qualcosa per deludere delle aspettative.
Insomma è la frase che ingloba tutta la fragilità del corpo delle donne. Che le incatena agli specchi, alle bilance, alle creme anticellulite. Le donne, moltissime, cercano ancora l'approvazione dell'occhio maschile, a qualsiasi età. E tutte cercano l'approvazione del proprio compagno.
Sarebbe semplice. Forse dire "ti stai truccando?" suona diverso. "Ti metti un maglione o un vestito?" forse è meno brutale di un "Ti tiri a lucido stasera?". 
Bisognerà chiedere una mano, temo. Almeno agli uomini che abbiamo scelto di avere vicino.

Se avete altre espressioni che pensate di voler bandire dalla lingua italiana, potete sfogarvi qui!


Come eravamo...

Non sono sempre stata femminista. Quando ero piccola non lo ero affatto. Anzi, volevo essere un maschio. E volevo fare un lavoro da maschio.
Quando a otto anni ho detto a mia madre, che ha fatto spallucce, che volevo fare il dottore, non mi immaginavo in uno studio tirato a lucido con una gonna e una camicia di seta sotto il camice stirato di fresco. Nossignore! Mi immaginavo in prima linea, in un ospedale da campo, con una cartucciera di siringhe e un bisturi tra i denti. La soldato Jane di tutti i dottori!
Il perché volessi essere un maschio è presto spiegato. Perché essere un maschio era più divertente. Niente vestiti scomodi, giochi più fichi, il privilegio di fare la pipì in piedi, la possibilità di fare la gara di rutti e nessuna mestruazione in arrivo. Quando le tue ovaie decidono di attivarsi a dieci anni, vorresti essere tutto tranne che una femmina. Piuttosto un cane o uno scimpanzé.
E poi i maschi adulti mi sembravano potenti. Non ho avuto un papà in giacca e cravatta, ma la sua tuta da meccanico mi sembrava comunque più interessante dei vestiti comuni di mia madre.
Mio padre e mio nonno mi sembravano quelli che prendevano tutte le decisioni in famiglia (ho dovuto crescere un po' per capire quanto non fosse vero!) e io volevo prendere decisioni.
Tutto nel mondo mi portava a desiderare di essere come loro e ci ho provato, per almeno una ventina d'anni. Ho avuto molti più amici maschi che femmine, per tutta la mia adolescenza. Suonavo con un gruppo di maschi. Bevevo come un maschio e mi piaceva che i miei amici me lo facessero notare (una terribile gara di resistenza che mi è costata una gastrite).
Quando ho iniziato ad accorgermi che mi piacevano i maschi le cose sono molto cambiate.
E non è stato allora che sono diventata femminista. Al contrario, sono caduta dentro a tutti i miseri cliché di questo mondo. Sono stata ossessionata dal mio corpo, a dieta per una buona parte dei miei anni migliori, in una continua altalena pericolosa tra l'essere originale e l'essere la copia di qualcosa che mi veniva proposto come perfetto.
Quando dormivo con qualcuno non mi struccavo, per paura di non essere bella a sufficienza. Pensavo, a volte, che un paio di jeans potessero farmi diventare qualcuno e risparmiavo i soldi per comprarmeli invece di spenderli per divertirmi davvero.
Volevo che gli uomini mi notassero. Lo so, lo so, che è tutto normale. Che non si tratta che di crescita e ormoni impazziti. Ma tutte queste ossessioni e manie hanno scavato talmente a fondo che ancora oggi mi faccio l'autoanalisi. Sto ancora imparando ad amarmi per quella che sono e a ignorare la propaganda dell'impossibile.
La prima volta che ho capito che volevo essere femminista è stato in un bar. Una mia amica mi aveva invitato per un tè tra donne. Era una specie di esperimento sociale, una chiacchierata per confessarsi tra sconosciute le ossessioni che riguardavano il corpo. Mi sono accorta che nemmeno una delle ragazze lì presenti era felice dell'immagine che lo specchio rifletteva, e tutte raccontavano storie di scherno e vergogna, di discriminazione. Battute stupide sul loro peso. Risate per il loro modo di vestire. Giochi di parole sul seno che non c'è. Una dopo l'altra quelle sconosciute mi hanno aperto gli occhi sul fatto che questa riunione i maschi non l'avrebbero potuta fare. Mai.
Allora ho capito che volevo essere una femmina. Sono tornata a casa più felice, senza capire bene il perché. E qualcosa si è acceso. Improvvisamente sono stata capace di vedere in un'ottica nuova, tutto quello che non andava. Mi sono tolta un velo dagli occhi e ho iniziato a notare tutto, e tutto di colpo.
E' stato come essere catapultata su un altro pianeta. Un pianeta pieno di cose da sistemare. Fino al giorno prima mi sembrava che andasse bene, combattevo per i diritti degli altri casomai, perché io, i diritti, li avevo già tutti. E fu come avere una torcia in mano, un immenso faro nella notte.
Quelle donne che bevevano il tè mi hanno fatto diventare femminista e non le ringrazierò mai abbastanza per questo. E non ringrazierò mai abbastanza la mia amica che ha fatto diventare queste confessioni una mostra interattiva che spiega a tutti il dolore che c'è dietro un certo tipo di violenza concessa e permessa.
Questa piccola cronistoria è per dire che non si nasce qualcosa, lo si diventa col tempo e con fatica. Come si fa con ogni conquista, ogni giorno bagno la mia piccola piantina femminista, il che significa anche bagnarla di rabbia per tutto ciò che vedo, leggo e sento (povere le mie orecchie!). Questo è per spiegare perché mi sono messa a scrivere di donne a ventotto anni e non a diciotto. E per dire anche che sento che all'ONU per i diritti delle donne ci dovrebbe essere una donna con i controcazzi e controcoglioni (scusate il francese), una che si è fatta un mazzo a studiare e informarsi e si è battuta per la causa, invece che Emma Watson. Una che avrebbe saputo cosa dire ai troll di internet che la minacciavano di morte.
E questo per dire anche viva Emma Watson, se continuerà il suo percorso e terrà fede a tutte le sue promesse. Viva lei e tutte le altre perché c'è un immenso bisogno di loro e non perché sono superstar, ma perchè sono donne.
Femministe non si nasce!




martedì 14 ottobre 2014

Lettere da dove?

Non sarò certo io a scrivervi quanti abitanti ha Uppsala o quali monumenti dovete assolutamente visitare, o quante persone sono impiegate nel settore terziario nelle Uppland in Svezia. Nossignore!
Però mi sembrava importante, mettere almeno un puntino sul posto remoto dal quale parlo ad un immaginario conclave femminile di cose che sono molto legate all'ambiente che ho attorno. Mettere la bandierina.
Ma niente pappardelle alla Wikipedia.

Uppsala è un posto dello spirito.
Se state pensando che sia il corrispettivo letterario di "un posto in cui non c'è niente da fare", non siete lontani dalla realtà, ma è comunque una definizione approssimativa.
Se pensate che con spirito stia alludendo ad alcol...beh, non siete lontani dalla realtà nemmeno in questo caso.
Uppsala è un nome buffo. Per cominciare.
Significa Città del Nord. Fantasioso, penserete. Fatto sta che di città più a Nord di Uppsala ce ne sono, ma si tratta di piccole comunità che non assomigliano neanche lontanamente alla nostra idea di agglomerato urbano. Quindi Uppsala è l'ultima città del Nord, da un punto di vista svedese, ovviamente.
Questo dà, e qui parlo di me, una certa sensazione di fierezza. Come se si stesse a difesa del lato Nord dell'Europa. Lungi da me insinuare l'idea dei confini in questo incasinato momento storico. La sensazione che ho è più quella che potrebbe provare uno svedese del 1600 pronto a eventuali invasioni barbariche dalla Lapponia.
E le invasioni barbariche arrivano puntualmente. Ogni novembre. Quando il vento del Nord dirige ed piega l'uomo a proprio piacimento.
E allora non resta che dire di sì al vento del Nord, ma sempre a testa alta. Che ci pieghi ma non ci spezzi, insomma!
Mentre parlavo dell'inverno in arrivo con un amico, lui mi interrompe (si può interrompere in una chat? Bah...forse sì, quando si digita con veemenza!) e mi scrive: Sembrate sempre sull'orlo dell'Apocalisse. E forse è l'idea che diamo, soprattutto noi migranti da Sud.
In inverno, ci si muove più lenti, nel buio, un po' arrancando (ma, per dio, ci si muove comunque!).
La casa diventa il focolare, quello dove davvero non si vede l'ora di ritornare. La cucina è la parte della casa più importante, quella che si vive di più; perché nutrirsi e farlo bene è di fondamentale importanza per stare in piedi dritti nella neve. E le riunioni casalinghe davanti a zuppe e risotti saranno il passatempo di un inverno intero.
Lo spirito beneficia di cose molto materiali. O per lo meno, il suo rinnovamento passa attraverso il tangibile.
Il freddo, la fatica e il superamento di tutto questo. Arrivare a sentirsi a proprio agio in condizioni estreme.
E' un po' come essere il Rocky Balboa dei ghiacci. Quando il vostro corpo si sarà abituato al buio e al freddo salirete la dannata scalinata cantando Eye of the Tiger.
E sarà il vostro spirito ad aver raggiunto il traguardo.

Uppsala è anche una delle Università più antiche del mondo.
In ogni paese che ho visitato, gente del posto mi ha giurato che la seconda università più antica del mondo si trovava proprio lì, nella loro patria. Così è successo a Uppsala. Quindi diciamo che è UNA DELLE più antiche del mondo, perché sulla questione università e antichità la mia fiducia vacilla. Interessante è che nessuno si azzarda a dire di avere l'Università più antica in assoluto, perché è davvero universale che quella sia Bologna! Siamo riusciti a zittire nei secoli persino i francesi!
A Uppsala gli studenti sono i re della città. Organizzano vere e proprie scorribande notturne.
La città vive di questo, della propria cultura.
Ed è famosa in tutto il mondo per essere un centro di ricerca medica.
Eccoci, siamo arrivati al punto: io cosa ci faccio qui.
E siamo anche arrivati al momento in cui si fa sul serio con la missione informativa.
Ci addentriamo nel mondo della ricerca, delle donne nella ricerca più in particolare, mentre fuori la temperatura scende, giorno dopo giorno.
Vedremo se all'arrivo della primavera, oltre allo spirito da pugile imbattibile, avremo anche capito come si fa a fare ricerca oggi, dove e soprattutto a che prezzo.

venerdì 10 ottobre 2014

Bianca

Non è un post sulla neve. E' un post rilassante da venerdì pomeriggio, quando sai che presto uscirai dal lavoro e chiuderai quell'area del tuo cervello per un paio di giorni.
Un post che non vuole infierire sulla condizione delle donne, svedesi o italiane, o sulla triste realtà culturale di certe aree geografiche. Abbiamo detto che è venerdì, no?
Un post che parla di Bianca.
Poche settimane fa mi sono divertita a scrivere su Facebook la classifica dei dieci libri più importanti della mia vita. Un tormentone di gran moda tra gli utenti delle reti sociali (mi spiace di fare l'italianista, ma la parola social network la sopporto appena, la sento dire troppo spesso e credo sia una delle poche parole che viene usata in modo appropriato, il ché mi riempie di tristezza). Scrivere la lista è stato divertente e molto faticoso. I grandi classici inculcati da vecchie professoresse di lettere, che ti entrano nella pelle quando ti lasci andare, han dovuto gareggiare contro titani dell'autodeterminazione adolescenziale come No Logo di Naomi Klein o tutta l'opera omnia di Thoreau. Per non parlare dei libri che mi piacciono e basta, che mi hanno straziato l'anima e tormentato notti in bianco con la lucina accesa, che rileggerei cento volte fino a credere che quella raccontata sia l'unica realtà possibile. Insomma un bel casino.
Dieci è proprio un numero del cavolo. Fossero stati almeno 20, 50, magari 100. Eh sì, perché se, in tutto lo scritto universale, scelgo di leggere qualcosa l'ho già reso importante, degno della mia attenzione, del mio tempo. Ho già scremato e sicuramente qualcuno ha indirizzato la mia scelta.
Un amico che mi ha detto che mi potrebbe piacere un autore, la mia rivista preferita che recensisce con cinque stelline un volume o un libro che è importante per qualcuno a cui voglio bene.
E tante volte hanno scelto per me. Mi hanno regalato libri e li ho letti sempre, perché bisogna dare fiducia a chi regala libri, senza se e senza ma.
Quando ero piccola era diverso.
Andavo alla biblioteca di Ponte San Pietro una volta la settimana. Le uniche cose che potevano aiutarmi nella scelta erano: i titoli, l'immagine di copertina e il profumo della carta.
Nonostante questa limitata capacità di discernimento, le mie letture infantili sono state ottime, segno che c'è più di un'alchimia tra i libri e il lettore.
Per fortuna, tra i volumi disponibili nello spazio Giovani, c'era anche Bianca.
Bianca Pitzorno. Probabilmente non vi dico niente di nuovo. La maggior parte di voi starà sorridendo. Starà pensando ad Asdrubale con i denti ammuffiti e i brufoli di Streghetta Mia, o alla piccola Lavinia infreddolita la notte di Natale, per non parlare di quella furia di Prisca di Ascolta il mio cuore.
Quando lessi Speciale Violante, capii che non avrei mai più potuto fare a meno della letteratura, che i libri non erano solo fatti per imparare, ma anche per sognare.
Devo molto a Bianca Pitzorno, come donna, oltre che come lettrice. Nelle sue storie, il femminismo è raccontato delicatamente, ma senza mezzi termini. Le sue bambine coraggiose e intelligenti sono il preludio delle donne che hanno letto quelle storie da piccole, coraggiose e intelligenti. Alleate, soprattutto.
Le bambine di Bianca Pitzorno sono alleate, amiche, unite. Non si invidiano, non si odiano e percorrono la vita per mano.
Il mito delle amiche invidiose è una stupida trovata dell'imperialismo maschile che ha vissuto per secoli sul "divide et impera", come dice Bianca in una bella intervista.
Oggi mi sono ricordata di lei, del suo elegante lavoro educativo, così importante. Ogni tanto ci si scorda dell'ovvio e io ho vergognosamente dimenticato i suoi libri nella mia top ten.
Forse li ho dimenticati proprio perché vengono prima ancora, prima della consapevolezza di star leggendo e provare piacere nel farlo. Sono stati il faro che mi ha fatto tornare in quella biblioteca per anni.
Se per caso non siete state fortunate quanto me, o la vostra biblioteca non ha potuto sostenervi e siete a corto di Bianca, beh...è ora di cominciare e non importa quanti anni avete. Sono libri per bambine, ma sono libri seri!



lunedì 6 ottobre 2014

Picco di reminiscenza

Sono atterrata a Skavsta, l'aeroporto in assoluto più scomodo per raggiungere Uppsala. E' l'aeroporto Ryanair, voli low cost ma atterri in posti mai sentiti nominare, tendenzialmente in mezzo al nulla e a distanze intergalattiche dal posto in cui sei diretto.
Skavsta in particolare è a sud di Stoccolma e a più di 200 km da casa mia.
L'autobus della Flygbussarna, col suo logo arcobaleno, attraversa la foresta.
Tra la cittadina di Skavsta, piccola e assolutamente priva di interesse (fatto salvo per l'aeroporto), e la capitale c'è solo foresta. Qualche casetta rossa coi profili bianchi qua e là.
E' una foresta un po' addomesticata, ma non è niente male; e, anche se coperta di bianco da' tutta un'altra suggestione, l'autunno le sta bene. Spuntano faggi gialli e rossi in mezzo alle conifere verde scuro e il vento freddo del nord fa volare le foglie nelle radure, le accumula e poi le disperde.
Con il cielo di oggi, nuvoloso e bassissimo sopra la testa, viene voglia di arrivare a casa presto e infilarsi dritti sotto le coperte, leggere un libro di avventure in posti tropicali e bere il lungo caffè di sempre.
Invece ci vogliono quasi quattro di ore dalla pensilina del Flygbussarna "to Stockholm city" alla porta del mio palazzo.
Faccio quello che ho imparato, o meglio, che la Svezia mi ha insegnato: aspetto serenamente. Scivolo sull'autostrada tra gli alberi e elimino la pulsione di schiacciare un immaginario acceleratore del tempo per cancellare quelle ore inutili.
Forse non sono così inutili.
Si possono fare mille cose mentre aspetti. Se hai la fortuna di aspettare in movimento, troverai sempre un finestrino, un oblò o un tettuccio apribile da cui guardare le cose scorrere. Sentirti un fiume.
E se proprio la foresta Skavsta-Stoccolma dopo qualche chilometro annoia, si apre la borsa e si cerca con la mano il compagno fondamentale di ogni spostamento aereo. Per qualcuno sarà la settimana enigmistica, il classico romanzo non troppo impegnativo (basta che non sia Fabio Volo!), un fumetto giapponese.
Per me è L'Internazionale. Lo compro solo in aeroporto, e solitamente lo divoro nel tempo del viaggio.
Nella quotidianità della mia settimana non c'è spazio temporale sufficiente per inserire un L'Internazionale intero (ma forse la Svezia mi insegnerà a trovare anche quello). Quindi, siccome lo adoro, mi accontento di leggere le notizie brevi on line e di acchiapparlo appena passo da un aeroporto italiano qualunque.
Ognuno ha i suoi rituali!
Apro alla pagina 74 e leggo un articolo sulla memoria. Anzi, sull'amnesia infantile, ovvero il fatto che gli adulti non ricordano un accidenti o quasi dei loro primi tre anni di vita.
Da Freud in poi si sono sprecate le teorie sul perché questo succeda, ma nessuno è arrivato da nessuna parte (e parlando da persona "del settore", fa tirare un sospiro di sollievo che il cervello dia ancora del filo da torcere agli scienziati!).
Leggo: "[...] Quando il bambino cresce, i ricordi corrono meno il rischio di essere distorti o di andare distrutti. La maggior parte di quelli che ci portiamo dietro per tutta la vita si è formata tra i 15 e i 30, durante il cosiddetto "picco di reminiscenza", quando investiamo molte energie nell'analizzare il nostro passato per cercare di capire chi siamo. Gli eventi, le persone e la cultura di quel periodo rimangono in noi e possono offuscare il presente. Pensiamo che i film, la musica, la moda le amicizie e le storie d'amore di quel periodo fossero migliori di quelle di oggi."
Sono alla fine del picco di reminiscenza. Questo è stato il mio primo pensiero.
Il secondo pensiero è stato che gli scienziati ne sanno una più del diavolo.
Quello che mi è sembrato affascinante è la nuova luce che questa apparentemente innocua frase sulla memoria getta sulle nostre vite quotidiane.
Avete presente quando vostra madre vi dice che ai suoi tempi le amicizie erano più vere, più profonde e le persone più sincere? Adesso potrete dirle che è solo un'illusione dovuta al picco di reminiscenza.
E con quante cose farete pace finalmente! Con i film di oggi che fanno schifo, con gli adolescenti che sono dei cafoni, con la vostra città che una volta era vivibile e invece ora, con il vostro compagno che non sarà mai come il vostro primo vero amore.
Magari era proprio questa l'informazione che ci mancava per zittire una buona volta tutti i noi stessi giovani e scapestrati che ad ogni passo della strada ci sussurrano all'orecchio: "era meglio prima!"


sabato 4 ottobre 2014

Le cinque cose da non dire a uno svedese

In ogni posto ci sono cose da non dire, o che sarebbe molto meglio tacere per garantirsi una rapido e liscio ingresso in società.
Potrei fare un elenco delle persone straniere che, quando ho detto di essere italiana, hanno risposto: Il Padrino (che non è nemmeno un film italiano)! E quando vedevano che rimanevo lì, confusa e corrucciata, mettevano fine ad ogni possibilità di relazione con un giocoso: "ma la mafia non esiste!"
Ecco, questo post vuole essere un piccolo codice di comportamento per i primissimi tempi di vita al Nord. Una guida facilissima con cinque consigli che aiutano a evitare sguardi di disapprovazione.
Non pensiate che dicendo una qualsiasi di queste cose scalfirete in alcun modo la corazza di gentilezza estenuante del vichingo. Quindi non usatela (la guida) come esperimento sociale!
L'obiettivo non è spaventarvi. Dopo un'accurata conoscenza ed esplorazione, potrete esprimervi al massimo delle vostre potenzialità. Ma per le prime settimane è bene evitare di scivolare sulle bucce di banana.

Cosa non dire...

1. Che fumate. 
Non ditelo. Corrisponderebbe alla morte civile.
La Svezia è orgogliosa (orgogliosissima direi!) di aver eliminato una grossa fetta di patologie polmonari provocate dal fumo. Il capo del mio dipartimento ne è entusiasta. E fa molto bene. La loro restrittiva politica sul fumo e il costo del tabacco (da urlo!) hanno portato a ridurre la percentuale di fumatori all'1% della popolazione totale.
Fumare è una stigmate sociale enorme. Si viene guardati come persone che hanno una dipendenza, cosa è che verissima, ma non è vissuta nello stesso modo nell'Europa del Sud.
Se siete nicotina-dipendenti (come la sottoscritta) trovatevi dei nascondigli sicuri, munitevi di collutorio e buona fortuna!
Potreste anche pensare di smettere per non sentire la pressione sociale degli sguardi altrui.
Chiaramente nessuno svedese si arrabbierà con voi o sarà scortese se chiedete di poter uscire in balcone a fumare una sigaretta, ma vi sorbirete una lunga ramanzina sui danni del fumo. Ogni santa volta.
Dopo qualche tempo potrete certamente permettervi di parlarne con i vostri amici o colleghi svedesi cercando di mettere le sigarette sullo stesso piano dell'alcol, il loro tallone d'Achille!

2. Che fate ricerca su modello animale.
Sì, faccio ricerca su dei poveri maialini. Praticamente tanti piccoli Babe. Non è questo il posto adatto per una disquisizione in materia e per convincervi che questo sia necessario per migliorare le condizioni di salute dei vostri figli, quindi evito il sermone.
Ma se state pensando che è crudele, che gli animali vanno rispettati, che bisogna trovare un'alternativa e che i ricercatori sono mostri, complimenti! La pensate come lo svedese medio.
La vita a contatto con la natura li ha resi molto sensibili e le manifestazioni (silenziose) per i diritti degli animali si sprecano.
Io ho fatto outing la sera del mio arrivo, a cena con un gruppo di amici della mia coinquilina, fiduciosa di trovarmi nel paese di ampie e luminose vedute, non sapendo di essere finita in un covo di animalisti. E' stato abbastanza tragico, ve lo assicuro.
Se siete vegani, ambientalisti, animalisti o anti-pellicce troverete la Svezia un luogo accogliente e pieno di approvazione per il vostro impegno.
Io da vegetariana che lavora coi maiali (non certo per scelta personale), mi trovo ad ammirarli e a odiarli nello stesso tempo e spero che il karma possa bilanciare la mia attività di pig-killer con i miei dieci anni di digiuno carnivoro.
L'altra faccia della medaglia? La caccia sportiva, che coinvolge un numero enorme di persone. Contraddizioni nordiche. Ma ne parliamo un'altra volta.

3. Che la Russia è un paese bellissimo.
Ricordate che la Russia ha cercato di invadere la Scandinavia più volte? Ecco, non dimenticatelo quando parlate di politica estera al brunch domenicale.
Putin è malvisto e poco tollerato, anche e soprattutto per il suo pugno di ferro sui diritti degli omosessuali. La Svezia ha estremo rispetto dei diversi orientamenti sessuali dei suoi abitanti e mal sopporta il governo russo e le sue prese di posizione.
Non ne avevo idea quando ho detto che ero entusiasta che mia sorella avesse deciso di studiare russo perché avrebbe avuto la possibilità di entrare in contatto con una cultura antica e piena di meraviglie letterarie e artistiche. Sembrava che nel bicchiere del mio interlocutore si fosse materializzata una cacca di cane!

4. Mai, mai, mai scrivere un secondo messaggio/chiamata/mail a uno svedese, se non ha risposto al primo.
Questa è la golden rule. Non dimenticatelo!
Se uno svedese non risponde al vostro messaggio o alla vostra chiamata è perché non vuole e richiamandolo lo farete sentire in imbarazzo e costretto a rispondervi. Lo metterete in difficoltà. Avrete invaso la sua privacy.
Se volete affittare una casa e il proprietario vi dice che la casa è vostra dal giorno tot senza chiedervi di firmare niente, smettete di chiamarlo per avere la riconferma ogni giorno o rischiate di perdere l'appartamento. Se ha detto sì, significa sì e non sentirà più il bisogno di comunicare con voi fino alla consegna delle chiavi. Tutto quello che farete per sentirvi rassicurati (mica che per caso ha cambiato idea!) o i messaggini che gli scriverete per ringraziarlo gli daranno immenso fastidio.
Il vostro capo non vi chiamerà mai durante il week end o fuori dall'orario lavorativo per chiedervi di controllare i dati dell'excel che gli avete mandato perché non gli tornano. Sarebbe invadere la vostra privacy. Chiamare le persone dopo le otto di sera o nei week end è invadere la privacy. Scrivere messaggi o mail che chiedono conferme è invadere la privacy. Non parliamo nemmeno di suonare il campanello della gente per un salutino.
Le persone si vedono in orari prestabiliti e con la dovuta previa organizzazione. E tra sconosciuti si comunica il minimo indispensabile.
Mi raccomando, almeno all'inizio! Poi col tempo, quando avranno imparato a conoscervi per quello che siete (italiani), potrete permettervi di invadere le loro privacy con la scusa del gap culturale.

5. Fare commenti a proposito di una collega (o di un collega).
L'unico modo per farsi licenziare in Svezia è infastidire una/un collega di lavoro. Le molestie sessuali non sono pacche sul sedere o mani nel reggiseno, qui.
La molestia è una parola o un commento sfuggito in mensa o in corridoio.
Gli svedesi sono infinitamente attenti a tutto questo. Un po' ovunque, ma soprattutto sul posto di lavoro. Lo fanno per paura, forse, più che per convinzione. Ma, come già accennavo, lo trovo molto rilassante.
Ieri sera a cena, chiacchieravo della cosa con un mio collega cileno. Sono stata io che parlando di una collega ho detto: "ma tu non pensi che sia bellissima?". Parlavamo castigliano, almeno lui non avrebbe rischiato il licenziamento e il rimpatrio per una frase detta male.
Mi ha risposto che: sì, è bellissima. Ma ha aggiunto che non è ben visto un commento del genere. Io ho sorriso a trentadue denti. Ho pensato: "Questa Svezia li frusta a dovere i virgulti di macho latino doc!".
Mi raccomando, perché la stessa cosa vale anche per le donne. Nessun commento sul vostro collega giovane e carino. Ci metterebbe un secondo a parlare con il vostro supervisore e farvi passare un brutto quarto d'ora.
No zob in job! Niente sesso al lavoro. Il che comprende anche tutte le manifestazioni di sessualità che racchiudono certe tristi e sfortunate frasi a cui, noi del Sud (sì, anche noi milanesi siamo del Sud!), siamo ormai avvezzi.

Adesso siete quasi pronti (almeno a evitare le più eclatanti figuracce del mio primo mese al Nord)!

martedì 30 settembre 2014

Vikings

Una mia amica femminista (nel senso che è impegnata all'interno del movimento, un'attivista insomma), mi ha scritto un messaggio la settimana scorsa che diceva così: "Ti prego, dimmi che non sono tutti deficienti anche lì!".
Si riferiva agli uomini.
Non sapevo come fare a deluderla, visto che dovevo. Ho risposto un evasivo: "I deficienti sono come il curry nella cucina indiana!"
Non me ne vogliano gli uomini che leggono il blog (e credo siano, forse, due). Il "tutti deficienti" della mia amica non significava tutti! Significava tanti. E vi assicuro che quando stai cercando un compagno di vita (o almeno un compagno di serate piacevoli) e accetti svariati appuntamenti semi alla cieca, la sensazione imperante è che non sia rimasto nemmeno un essere di sesso maschile con QI nel range di normalità sull'intera crosta terrestre.
Quello che volevo rispondere alla mia amica è che non ci sono grosse differenze, questo volevo dire.
L'attitudine "educata e posata" dello svedese medio, cela un po' di più la "deficienza", ma un occhio allenato vede i nodi prima che arrivino al pettine.

Domenica mattina vado a nuotare. Nuoto nella corsia media. C'è anche una corsia lenta, dove ci sono le signore di una certa età che più che nuotare sguazzano, e una veloce dove si immergono solo i veri vichinghi, non so se mi spiego. Io sto nel mezzo, che mi sembra una buona soluzione.
Nella mia corsia nuotano tutte le domeniche le stesse facce. Di queste facce tre sono maschili. Tutti e tre fanno a gara a chi ce l'ha più lungo, più grosso e più bello. Si superano anche se nuotano esattamente alla stessa velocità, mi superano perché stare dietro a una donna nonsiamai, si atteggiano con la faccia corrucciata alla Rosolino tutto il tempo.
Questo voglio dire quando scrivo che non c'è differenza.
Sguardi di derisione, disapprovazione, addirittura disprezzo, volano anche in questa parte d'Europa. Ma con vaghezza e affettazione.
Il che rende il tutto davvero più sopportabile. Non dico che sia meglio o peggio. Dico solo che vederlo meno mi fa arrabbiare di meno. Nel mio quotidiano.

Una cosa che non avrei mai immaginato e che distingue i vichinghi in modo molto sensibile dal resto degli uomini di mia conoscenza (provenienti da mezza Europa e più) è l'attaccamento ad un codice di comportamento sociale a tratti noioso e a tratti entusiasmante.
Provate ad andare a cena con uno svedese(per evitare guerre civili puntualizzo che sono andata a cena con un gruppo di svedesi, non con uno solo)!
Non importa quanto siete veloci, lui sarà più veloce di voi a: spostarvi la sedia per farvi sedere, per farvi alzare, versarvi l'acqua, il vino, la birra, raccogliervi il tovagliolo che vi è caduto e prendere la vostra giacca dal guardaroba per aiutarvi a indossarla. Non prenderà la forchetta in mano fino a che non sarete voi le prime a farlo e brinderà alla vostra salute milioni di volte.
Una ragazza italiana che ho conosciuto qui, ha accettato l'invito di un ragazzo svedese per un picnic. Il biondino si è presentato con uno zaino da 16 litri che conteneva nell'ordine: due bicchieri flut e una bottiglia da 50 ml di champagne per l'aperitivo, tartine, torte salate e risotto vegan (perché la mia amica lo è, non lui!) per il pranzo, fornellino da campo, caffettiera, caffè e biscottini, tovaglia, plaid e un maglione in più nel caso lei avesse avuto freddo. Ce stava a provà? No!
Come da noi ci sono ferrei ruoli che non riusciamo a mollare, così in Svezia. Solo che quelli svedesi mi sembrano più vantaggiosi, alla prima occhiata.
Mi rendo conto che si tratti di una mera questione di etichetta e che non abbia niente a che vedere col rispetto vero e proprio e tantomeno con l'affetto o l'amore (quando mai!), ma vi assicuro che è piacevole. Diciamo rilassante.
Non lo trovo nemmeno anti-femminista. La gentilezza non è anti niente, insomma!

Ecco, se potessi rispondere ancora al messaggio della mia amica le direi che la deficienza ha la stessa prevalenza nella popolazione, ma che con le gambe sotto il tavolo e un tortino di patate di fronte, te ne dimentichi per mezz'ora.


domenica 28 settembre 2014

I pugni in tasca


A Uppsala alle sette di mattina non vola una mosca.
Niente clacson, niente urla.
Milano alle sette di mattina è già un casino. Mi vengono in mente scene da guerra civile per un parcheggio, minacce di morte al semaforo, dita medie alzate e sventolate come un vessillo. Un piccolo disastro quotidiano, che si ripete, come uno spettacolo teatrale di successo, anche poco prima di cena.
Lasciando perdere il fatto che a Uppsala ci sono un ventesimo delle macchine che Milano contiene, il caos italiano non sembra riproporsi, in terra scandinava, nemmeno nelle dovute proporzioni.
Silenzio, macchine elettriche che manco le senti arrivare, ciclisti che sembrano ninja, passanti che non parlano al telefono se non sottovoce.
Se uno si addormenta a un semaforo, la colonna di macchine non fa una piega e prima di dare una piccola, innocente e rapidissima toccatina al clacson passano per lo meno tre minuti. Centottanta secondi! Sono un’eternità alle sette di mattina! Sono il tempo che ci metto a vestirmi e truccarmi!
La flemma da quasi sui nervi.
Mi chiedevo come potessero essere così sereni, sempre.
La spiegazione mi è arrivata qualche giorno fa. Da uno svedese. Gli chiedo perché non abbassano il finestrino e urlano il corrispettivo di: “Li mortacci tua!!” uppsalese. La risposta è: noi mettiamo il pugno in tasca. Chiudiamo il pugno e lo mettiamo via. Mettiamo via la nostra rabbia.
La prima reazione è: che bravi! Ma dopo 5 minuti che ci penso, dico ad voce alta: ma non fa per niente bene!
Mettere via i pugni chiusi non è salutare. Nonostante non l’abbia mai fatto (la mia rabbia è sempre ben visibile e se anche non lo fosse per l’oggetto della stessa, lo sarà per il bagno in cui andrò a emettere un urlo alla tarzan o per la porta che sbatterò a cento all’ora), credo che tenersi la rabbia di un’intera giornata, sia come portare in giro un macigno. Figuriamoci quella di una vita intera! Perché non è che poi gli svedesi vadano a tirare di boxe per sfogarsi eh!
Continuano a mettersi in tasca i pugni, come dei sassolini raccolti per strada.

Mi chiedevo quanto questo ha a che fare con i problemi sociali che il governo svedese sta affrontando in modo eccellente da molti anni. L’alcolismo, il tasso di suicidi e la violenza sulle donne. Sì perché i numeri sulla violenza in Svezia sono sovrapponibili a quelli di tutto il resto d’Europa.
Non molte settimane fa l’Internazionale pubblicava una mappa del tasso di suicidi nel mondo. A parte le insospettabili India e Australia con un tasso altissimo, la cosa che mi ha stupito è stato vedere che la Svezia ha un tasso di suicidi più alto del resto della Scandinavia.
Mi sono chiesta perché. Qui è tutto perfetto. Intendo dire che la gente vive bene, con una minuscola fetta di popolazione in stato d’indigenza e che comunque viene accudita da Mamma Svezia in modo ineccepibile. L’azienda per cui lavori ti paga la palestra, se hai figli vieni letteralmente coperto d’oro, le vacanze sono un diritto talmente sacrosanto che ne hanno il doppio rispetto a quelle di noi poveri europei del sud e le “cose da fare”, soprattutto per gli autoctoni e soprattutto dopo i trenta sono talmente tante che c’è l’imbarazzo della scelta.
State pensando al clima, giusto? Io alla faccenda del clima ci credo fino a un certo punto. Certo, l’inverno qui dev’essere duro e lungo. Quando ci arrivo poi ve lo racconto. Ma anche la Finlandia e la Norvegia passano attraverso il buio, ogni anno. Però si suicidano di meno.
E se fossero i pugni in tasca?
E se fosse rabbia repressa che lentamente corrode gli argini e straripa?

A proposito di violenza sulle donne i numeri fanno abbastanza schifo per essere quelli di un paese il cui governo è suddiviso esattamente a metà tra i due generi.
La famosa trilogia di Stieg Larsson metteva i puntini sulla questione, con numeri alla mano. Ho controllato. Sono i nostri stessi identici numeri.
A me i numeri piacciono, soprattutto quando dentro ci vedo un significato. E questi numeri fanno venire voglia di trovare un perché.
Sarà che la scena che mi passa nella testa ogni volta che ci penso non mi dà pace. Lei, amministratore delegato della Volvo (o dell’Ikea, se vi piace di più) che torna a casa dopo un’importante riunione con i vertici della filiale giapponese e viene presa a pugni dal marito, Professore associato all'Università. Questa scena faccio fatica a mandarla giù. Perché ho sempre creduto che l’educazione e la cultura fossero sinonimo di dirittura morale. Sbagliato! Più che sbagliato!
Pare che questi pugni in tasca ogni tanto, gli svedesi, li tirino fuori e pare che come da copione dall’alba dei tempi, li agitino dove è facile farlo: a casa loro.

Niente di diverso da quello che succede a casa nostra. Quasi quasi, per una volta, concedo al mio vergognoso paese un’attenuante. Meno cultura e più povertà. Ma non c’è da andarci troppo a testa alta.

Chi ha intenzione di creare un business e ha voglia di viaggiare potrebbe venire qui e inventarsi un corso di canalizzazione della rabbia. Titolo: “Fuori i pugni dalle tasche!”. La foresta sarebbe un posto ideale come location. Si può urlare quanto si vuole e per sedare il fiume di odio c’è sempre qualche lago ghiacciato nelle vicinanze.


p.s. Il post è un po’ tetro, mi rendo conto. Non sono ancora stata inhiottita dallo spirito gotico del posto, ho semplicemente pensato a questo in questi ultimi giorni. Prometto un post sui cavallini di legno decorati per farmi perdonare… J