mercoledì 12 novembre 2014

La memoria dei migranti

Sono passati tantissimi giorni. Ma il tempo, anche al Nord, si corrode al contatto con l'aria.

Sto pensando alla memoria. Non più a quella meraviglia psicologica del picco di reminiscenza (vedi post dedicato). A una memoria più grande, una memoria sociale.
Si raccoglie dentro ai gesti e alle parole e svela la nostra provenienza.
Ho conosciuto poche persone che non potessero dichiarare con certezza da dove venissero. Situazioni al limite, più uniche che rare. Madre e padre di paesi diversi, fare la spola da qui a lì per i primi 30 anni di vita. Oppure genitori diplomatici, che inseguono la carriera tra paesi mai sentiti nominare nel Sud Est Asiatico.
Queste poche persone senza una vera provenienza sono diverse da tutte le altre. Si comportano in modo unico, influenzato da ambienti troppo diversi tra loro per lasciare il segno. Una babele serena, in cui tutto ha lo stesso peso e mantiene la neutralità del territorio.
Le ho un po’ invidiate queste persone, prima di diventare un migrante.
Sì, perché sono un migrante. Qualunque cosa ne dica chi abusa della parola.
Ho cambiato paese per una ragione che non era un viaggio o una vacanza. Quindi ho migrato (o sono migrata…io la vedo una cosa più attiva che passiva, ma ognuno poi deciderà se migrare o essere migrato). Punto.
E mi sono accorta che la memoria è tutto il mio bagaglio.
Ogni cosa che ricorda la mia provenienza rappresenta quello che ho, da offrire e da difendere.
Così come me migliaia di altri.
Mi sono chiesta se smetteremo mai di aver paura della memoria degli altri.
Se avremo la decenza, prima o poi, di accettare che altri portino con se altre storie, diverse dalle nostre, né più né meno belle.

Sembra una cosa molto scontata, ma la memoria non ce la siamo scelta.
Né quella socio-culturale (se vogliamo chiamarla in un modo così brutto), né quella personale. Ci sono delle cose che ti rimangono stampate in testa senza un motivo ben preciso, non hai selezionato le informazioni all’ingresso del cervello. In quella macchina tritatutto che abbiamo in testa, alcune cose scivolano e altre invece si appiccicano.
Chi lo sa perché mi ricordo quel giorno di novembre dell’anno scorso in cui ho comprato due cavoli al mercato e faccio fatica a mettere a fuoco due immagini consecutive del giorno del mio ultimo compleanno. La memoria non si sceglie. E non si scelgono neanche le “tare” (passatemi il termine) culturali che ci porteremo appresso per sempre. Tipo cosa? Tipo l’accento bergamasco che esce anche in inglese se ci si arrabbia. Tipo la camminata da montanari incazzati. Tipo l’amore incondizionato per le torte salate. Tipo la necessità di avere musica intorno. Tutto è derivato dal posto e dalle persone con cui ho vissuto.
Nessuna di queste cose l’ho scelta. E lei, la memoria, non censura niente. Prende, trita, impasta e inforna. Il prodotto finale può piacere o meno, ma è più del 50% di me stessa.
E se qualcuno ci venisse a dire che essere italiani (o svedesi, o siriani...) non può essere motivo di orgoglio, perché non se ne ha il merito? Se ci dicessero la cosa più ovvia del mondo, cioè che il posto in cui siamo nati è il risultato del più puro caso?

Ecco, ve lo sto dicendo.

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