E' venerdì. Lo è anche un po' per me che qui al Nord vado avanti a botte di belle notizie e incomprensioni linguistiche.
E' una giornata un po' così. Col cielo basso basso, la pioggerella che ti inzuppa senza che te ne accorgi e la bici che sembra avere le ruote con la colla sopra.
Un post leggero è quello che ci vuole.
Gli articoli che spiegano le cose a punti, o mosse, o consigli numerati mi hanno sempre fatto ridere.
Come se l'oggettività di un problema potesse essere scomposta e ordinata.
Ora capisco perché si fa così. Perché è divertente!
La prima mattina a Uppsala facevo colazione con la mia coinquilina.
Tra una fetta di pane e marmellata e una sorsata di tè verde, mi dice: "Dobbiamo cominciare a prendere le nostre vitamine, o tra un mese saremo depresse!"
Vitamine? ho chiesto. Sì, la vitamina D. Importantissima. Se non la prendi stai malissimo.
Una volta per tutte a chiunque lo stia pensando: la vitamina D non è nel latte! E nemmeno negli yogurt che mangia la Sandrelli perché ha l'osteoporosi. La vitamina D è nel sole. Nel senso che serve il sole per farla. Punto. E a quanto pare ha un legame stretto anche con l'umore, la joie de vivre e quelle robe lì.
Siccome qui il sole scarseggia per almeno 8 mesi l'anno, mi ero rassegnata a comprare un integratore e ha ingerire due pillole al giorno almeno fino a marzo. Non volevo diventare più meteoropatica di quanto già non sia Swedenless.
Ma si sa che la mia testolina elucubra anche troppo, così mi sono detta: ma figurati se mi devo mangiare le pastiglie per star su con l'umore. Io non le prendo le MIE VITAMINE!
Sarà stato un ultimo barlume di ribellione al sistema, forse. Fatto sta che di fronte alla farmacia ho girato sui tacchi e me ne sono andata a casa.
In realtà non è andata proprio così. In realtà sono entrata in farmacia, ho preso le vitamine, sono andata a pagare alla cassa, ma la mia carta di debito non ha funzionato. Il display diceva Error!
Strana cosa, perché ha funzionato benissimo sia prima che dopo. Salvata da un Error di sistema.
Fatto sta che non ho più riprovato a comprarle. Ho preferito sfidare il nord.
Ho fatto un rapido sondaggio e ho racimolato questi cinque consigli da chi è più esperto di me in fatto di inverno, depressione da meteo e solitudine imposta dalle condizioni meteorologiche.
Ometto che dovete mangiare come si deve! ça va sans dire...
1. Dormi!
Dormi otto ore filate. Rigenerati. Rivoltati nel piumone. Riposa le stanche membra.
Ma fallo solo di notte. Il buio ti farà venire sonno alle 4 del pomeriggio. Resisti! Non cedere al riposino pomeridiano, o il tuo corpo impazzirà. Avrete tutto il sole di mezzanotte dell'estate per invertire il ciclo sonno-veglia. Non iniziate a ottobre o arriverete a primavera con un'insana voglia di far fuori i tuoi vicini.
Andate a letto presto durante la settimana, sgarrate solo nel week end, ma senza esagerare! Siate irreprensibile col vostro corpo. Comandatelo a bacchetta!
2. Fai sport!
Qui è un must. Tutti hanno l'abbonamento alla palestra. Tutti vanno in bicicletta. Tutti vogliono battere i record di qualche cosa.
Tranquilli, potete evitare l'ironman o il triathlon su un piede solo, però dovete muoverti!
Mantenere i muscoli attivi. E lo dovete fare tutti i giorni.
Munitevi di bicicletta, andate al lavoro con quella (si montano le gomme da neve anche sulle bici, lo sapevi?) e due o tre pomeriggi a settimana andate in palestra o, meglio ancora, in piscina. Basterà e ne guadagnerete in fiato e autostima.
Le endorfine che producete da soli sono gratis!
3. Pranza fuori!
Ma che sei scema? A meno venti devo pranzare? Ok, potete pranzare indoor ma prima o dopo il pranzo usate la tua pausa per fare un giretto.
Bastano 10 minuti. Uscite dal posto di lavoro, camminate per 10 minuti col sole (quando c'è) in faccia e poi tornate al lavoro. Avete presente la vitamina D? Al vostro corpo bastano 10 minuti di luce al giorno per produrne la quantità giornaliera che vi serve.
A gennaio l'unico momento in cui sarà possibile avere 10 minuti filati di luce sarà la pausa pranzo. Quindi tutti fuori!
4. Ridi!
Mi direte che ho scoperto l'acqua calda, ma non è un consiglio stupido questo. Anzi. Forse è l'unico che vale davvero qualcosa. Gli svedesi ridono poco. Rispetto agli italiani, intendo. Rispetto ai finlandesi, a detta loro, si spellano le ginocchia a furia di pacche gioiose. Ma a voi sembrerà che non ridano mai. Quindi...ridete voi per loro. Non si offenderanno, al massimo li contagerete con il buonumore. Ridere sempre. Quando qualcuno fa una battuta, quando vedete una cosa buffa o quando per strada a causa del ghiaccio cadrete come pere cotte.
Ma ridete a voce alta, però, eh. Che la risata se non è a voce alta non riverbera, non risuona, non si espande. Ah-ah-ah
5. A metà dell'impresa regalati un po' di caldo.
Lo fanno tutti. Tutti gli svedesi fanno le vacanze in inverno. Secondo voi perché? Perché nemmeno loro riescono a resistere al freddo così a lungo.
La maggior parte di loro vola verso l'Italia o la Spagna. Beh, fatelo anche voi. Non c'è bisogno di andare alle Maldive o nell'emisfero australe alla ricerca dell'estate.
Prevedete un rientro intelligente per Natale. O una gita da qualche amico in qualche città un po' meno meteorologicamente ostile e rimaneteci qualche giorno. Godetevi un po' di mare non ghiacciato, un mare che ha ancora le onde. Non fatevi fregare dale celebrazioni natalizie svedesi, così fashion! Natale con i tuoi, non è solo un proverbio, è un dogma salvavita!
Allo scioglimento dei ghiacci darà notizia dell'efficacia dei miei stessi consigli.
Al momento l'umore è alto, il vento in poppa e la vita facile.
Però... se dovessi cominciare a scrivere che la vita fa schifo, venite a prendermi!
"Mi accorsi che dovevo andare a Nord; così, senza pensarci troppo, mi misi a camminare"... Schegge di un cervello e un corpo e un cuore (di femmina) in fuga.
venerdì 24 ottobre 2014
martedì 21 ottobre 2014
Numeri - parte 1
La prima volta che ho pensato alla disuguaglianza di genere nella mia professione ero ad un congresso.
Sono un medico. Anche se credo che nessuno dei lettori ne sia all'oscuro, lo ricordo (mai snobbare gli eventuali fans disinteressati).
Credo di poter dire, anche senza numeri, che ad un livello meramente quantitativo, in medicina abbiamo raggiunto e superato gli uomini.
Fare il medico, anzi essere medico, non conviene più. Niente più stipendi stellari, molti più rischi legali e ci si spacca la schiena come o più di una volta.
Gli uomini hanno semplicemente spostato la propria attenzione verso qualcosa di più redditizio o comunque di meno faticoso. Così da qualche anno, la quota di studentesse che provano il test di ammissione è superiore al 50% del totale.
Cosa succede poi una volta entrate nel magico mondo della medicina lo lasciamo ad un futuro post. Lo riservo per un giorno in cui avrò rabbia da smaltire. Oggi sono alle prese con la statistica e preferisco parlare di meri numeri. Sono talmente eloquenti che potrò risparmiare la rabbia per un altro momento.
Dicevo, a livello numerico, la professione del medico è paritaria.
E la professione del ricercatore medico?
Molti medici che fanno ricerca, anzi quasi tutti, fanno anche attività clinica. Fare solo il ricercatore sarebbe infinitamente meno redditizio e, potendo contemporaneamente esercitare, si decide sempre per il piede in due scarpe e sono quasi certa che, come per tutto il resto, significhi fare tutto malissimo.
Chi sono i ricercatori medici?
Fino a qualche anno fa non lo sapevo. Poi ho cominciato a girare i congressi, prima da studente in cerca di gadget e poi da neo-professionista (se mi passate il termine), in cerca di vere informazioni, illuminazioni, idee.
Ho continuato a portarmi a casa solo gadget. E questo può far intuire che le grandi rivelazioni in medicina non hanno le proporzioni di ciò che si pubblica. Anzi, si pubblica di tutto. Vera e propria carta igienica. Ma anche per la speculazione sulla ricerca è meglio dedicare un intervento separato, rischierei di non finire mai più la mia pausa pranzo.
Ero al congresso, dicevo. Improvvisamente noto una cosa, uno sciocco particolare a cui, chissà come, non avevo mai prestato attenzione. I relatori erano solo uomini.
Cinque giorni di congresso e nemmeno una donna al microfono. Eppure di donne in platea ce n'erano.
Sono tornata a casa confusa.
Con il passare degli anni e dei congressi ho capito che, non solo erano sempre uomini a presentare fantasmagorici lavori per la maggior parte inutili, ma erano anche sempre gli stessi. E questo è un problema italiano (e non solo) che si chiama baronato, e pure questo andrebbe analizzato in altra sede.
Torniamo al fatto che c'erano soltanto maschi a parlare, non sempre bene, di scienza.
Al tempo in cui mi resi conto della discrepanza, ingenuamente, pensavo che la ricerca fosse un mondo fatato, giusto, equo e pieno di gente che passava le notti al microscopio o ad osservare il comportamento dei topi per amore dell'unica grande e provvida Mamma Scienza.
Invece è un mondo oscuro, ingiusto, assolutamente iniquo e pieno di gente che passa le serate a sbafarsi aragosta al ristorante a spese di qualche casa farmaceutica o, quando va peggio, dei contribuenti.
Quando facevo notare ai miei colleghi (maschi per lo più, ma anche parecchie femmine) che c'erano solo uomini a fare i relatori ai congressi, facevano spallucce.
"Saranno più bravi!" era la risposta. Io strabuzzavo gli occhi "Ma non c'è alcuna evidenza scientifica che sia così!". Chiunque liquidi la questione della disparità di genere con un "gli uomini sono probabilmente meglio a fare questo e quello", sappia che verrà sempre e intensamente spernacchiato dalla sottoscritta. Che diavolo di risposta è?
Sarebbe come dire questo: prendo due gruppi di pazienti, a uno do la medicina e all'altro no. Il gruppo che prende la medicina muore meno. "Probabilmente sarà perché gli altri avevano più voglia di morire!". Ecco, pensare che la questione di genere sia la conseguenza di una differenza di capacità ha esattamente la stessa evidenza scientifica del mio esempio.
Ma dovevo parlare di numeri.
Nel 2013 alcuni importanti articoli sull'ineguaglianza di genere nella ricerca scientifica sono comparsi su riviste di settore in tutto il mondo. Merito, forse, dell'ondata di femminismo che (con buona pace di tutti quanti) sta attraversando il mondo intero.
La più autorevole pubblicata da Nature (per chi non fosse del settore: una delle due riviste scientifiche più influenti al mondo). Nature ha pubblicato a riguardo un numero speciale chiamato: Woman in Science. Cercatevelo, è assolutamente alla portata di tutti i backround culturali.
I numeri di Nature sono eloquenti.
Innanzitutto le donne studiano. E questo è un fatto. Andiamo a scuola quanto i nostri compagni maschi. Ci laureiamo in uguale proporzione e in alcune aree di ricerca in particolare ci dottoriamo con la stessa frequenza. Una significativa differenza c'è solo in alcune facoltà ancora appannaggio degli uomini: ingegneria, fisica, astronomia.
Cosa succede dopo? Dopo ci spegniamo. Da qualche parte tra il dottorato e un impiego postdoc o un'assunzione come professore.
Le donne che provano una carriera accademica sono meno di un quarto degli uomini e meno del 15% per ingenerai e astronomia.
Le donne che la ottengono sono meno di un terzo di quelle che ci provano. Fatevi voi i vostri conti.
La ragione sembra in qualche modo legata alla famiglia. La stramaledetta famiglia tradizionale, in cui è la donna che rinuncia al proprio lavoro. Quella famiglia che in molti difendono a spada tratta. Proprio lei.
Le donne con figli mollano prima il lavoro nella ricerca e lo fanno con una frequenza proporzionale al numero dei figli. Gli uomini invece si riproducono senza che questo, apparentemente, abbia il benché minimo impatto sul lavoro. (Gli uomini che mollano sono il 20% del totale, che abbiamo o no figli il risultato non cambia; per le donne con i figli la percentuale arriva a più del 40%)
Eppure non è tutto qui, perché anche le donne senza figli e marito emergono come penalizzate.
Mi hanno impressionato le parole di Hanna Valentine, ricercatrice della Stanford University, "una delle cause degli abbandoni della carriera accademica da parte delle donne è che non trovano in questo mondo niente che somigli loro". Vale a dire altre donne. E sole è difficile andare avanti. Così molliamo, lasciando sola qualche altra che mollerà e via così.
Solo il 34% delle assunzioni per un primo lavoro come postdoc è femminile.
Un'interessante ricerca di Jo Handelsman ha dato qualche grattacapo ai vertici delle università americane. A 27 professori (maschi e femmine) venivano sottoposti due curriculum falsi di due aspiranti postdoc con le stesse identiche caratteristiche. Uno maschio e una femmina. Alla fine della valutazione la maggior parte dei professori si diceva interessato all'assunzione di John ma non di Jennifer e le poche volte in cui anche Jennifer veniva virtualmente assunta prendeva 3000 dollari in meno di John all'anno.
Questo è solo un assaggio. Non è nemmeno l'aperitivo. E' la tartina che rubate di nascosto dal vassoio quando vostra madre non sta guardando.
C'è una valanga di roba da leggere al riguardo. Altri mille e mille numeri.
E la cosa divertente è che nessuno si è preso la briga di analizzare i numeri della ricerca medica. Si parla sempre di biologia, ecologia, ingegneria, astronomia. I medici donna non si sono voluti sporcare il camice rovistando nel cesto della spazzatura. Eppure sono convinta che troveremmo dati ancora peggiori, un baratro di disuguaglianza.
Parlo alle mie colleghe! Dovremo farlo, sporcarci il camice dico. Sarà necessario. Quindi state pronte!
Lo so che i numeri sono deprimenti. Poco fantasiosi, a volte possono sembrare addirittura vuoti di significato.
Ma sono l'unico modo di tappare la bocca a chi dice che "magari gli uomini sono più bravi!"
Appena ho un po' di tempo in più vi prometto una bibliografia completa sull'argomento.
Perché c'è da fare un gran lavoro.
Ne volete sentire una bella?
Sono stata a un congresso anche in Svezia, la settimana scorsa.
Indovinate quante donne c'erano a parlare di scienza.
Neanche una.
Mi auguro vi stiate già rimboccando le maniche.
Sono un medico. Anche se credo che nessuno dei lettori ne sia all'oscuro, lo ricordo (mai snobbare gli eventuali fans disinteressati).
Credo di poter dire, anche senza numeri, che ad un livello meramente quantitativo, in medicina abbiamo raggiunto e superato gli uomini.
Fare il medico, anzi essere medico, non conviene più. Niente più stipendi stellari, molti più rischi legali e ci si spacca la schiena come o più di una volta.
Gli uomini hanno semplicemente spostato la propria attenzione verso qualcosa di più redditizio o comunque di meno faticoso. Così da qualche anno, la quota di studentesse che provano il test di ammissione è superiore al 50% del totale.
Cosa succede poi una volta entrate nel magico mondo della medicina lo lasciamo ad un futuro post. Lo riservo per un giorno in cui avrò rabbia da smaltire. Oggi sono alle prese con la statistica e preferisco parlare di meri numeri. Sono talmente eloquenti che potrò risparmiare la rabbia per un altro momento.
Dicevo, a livello numerico, la professione del medico è paritaria.
E la professione del ricercatore medico?
Molti medici che fanno ricerca, anzi quasi tutti, fanno anche attività clinica. Fare solo il ricercatore sarebbe infinitamente meno redditizio e, potendo contemporaneamente esercitare, si decide sempre per il piede in due scarpe e sono quasi certa che, come per tutto il resto, significhi fare tutto malissimo.
Chi sono i ricercatori medici?
Fino a qualche anno fa non lo sapevo. Poi ho cominciato a girare i congressi, prima da studente in cerca di gadget e poi da neo-professionista (se mi passate il termine), in cerca di vere informazioni, illuminazioni, idee.
Ho continuato a portarmi a casa solo gadget. E questo può far intuire che le grandi rivelazioni in medicina non hanno le proporzioni di ciò che si pubblica. Anzi, si pubblica di tutto. Vera e propria carta igienica. Ma anche per la speculazione sulla ricerca è meglio dedicare un intervento separato, rischierei di non finire mai più la mia pausa pranzo.
Ero al congresso, dicevo. Improvvisamente noto una cosa, uno sciocco particolare a cui, chissà come, non avevo mai prestato attenzione. I relatori erano solo uomini.
Cinque giorni di congresso e nemmeno una donna al microfono. Eppure di donne in platea ce n'erano.
Sono tornata a casa confusa.
Con il passare degli anni e dei congressi ho capito che, non solo erano sempre uomini a presentare fantasmagorici lavori per la maggior parte inutili, ma erano anche sempre gli stessi. E questo è un problema italiano (e non solo) che si chiama baronato, e pure questo andrebbe analizzato in altra sede.
Torniamo al fatto che c'erano soltanto maschi a parlare, non sempre bene, di scienza.
Al tempo in cui mi resi conto della discrepanza, ingenuamente, pensavo che la ricerca fosse un mondo fatato, giusto, equo e pieno di gente che passava le notti al microscopio o ad osservare il comportamento dei topi per amore dell'unica grande e provvida Mamma Scienza.
Invece è un mondo oscuro, ingiusto, assolutamente iniquo e pieno di gente che passa le serate a sbafarsi aragosta al ristorante a spese di qualche casa farmaceutica o, quando va peggio, dei contribuenti.
Quando facevo notare ai miei colleghi (maschi per lo più, ma anche parecchie femmine) che c'erano solo uomini a fare i relatori ai congressi, facevano spallucce.
"Saranno più bravi!" era la risposta. Io strabuzzavo gli occhi "Ma non c'è alcuna evidenza scientifica che sia così!". Chiunque liquidi la questione della disparità di genere con un "gli uomini sono probabilmente meglio a fare questo e quello", sappia che verrà sempre e intensamente spernacchiato dalla sottoscritta. Che diavolo di risposta è?
Sarebbe come dire questo: prendo due gruppi di pazienti, a uno do la medicina e all'altro no. Il gruppo che prende la medicina muore meno. "Probabilmente sarà perché gli altri avevano più voglia di morire!". Ecco, pensare che la questione di genere sia la conseguenza di una differenza di capacità ha esattamente la stessa evidenza scientifica del mio esempio.
Ma dovevo parlare di numeri.
Nel 2013 alcuni importanti articoli sull'ineguaglianza di genere nella ricerca scientifica sono comparsi su riviste di settore in tutto il mondo. Merito, forse, dell'ondata di femminismo che (con buona pace di tutti quanti) sta attraversando il mondo intero.
La più autorevole pubblicata da Nature (per chi non fosse del settore: una delle due riviste scientifiche più influenti al mondo). Nature ha pubblicato a riguardo un numero speciale chiamato: Woman in Science. Cercatevelo, è assolutamente alla portata di tutti i backround culturali.
I numeri di Nature sono eloquenti.
Innanzitutto le donne studiano. E questo è un fatto. Andiamo a scuola quanto i nostri compagni maschi. Ci laureiamo in uguale proporzione e in alcune aree di ricerca in particolare ci dottoriamo con la stessa frequenza. Una significativa differenza c'è solo in alcune facoltà ancora appannaggio degli uomini: ingegneria, fisica, astronomia.
Cosa succede dopo? Dopo ci spegniamo. Da qualche parte tra il dottorato e un impiego postdoc o un'assunzione come professore.
Le donne che provano una carriera accademica sono meno di un quarto degli uomini e meno del 15% per ingenerai e astronomia.
Le donne che la ottengono sono meno di un terzo di quelle che ci provano. Fatevi voi i vostri conti.
La ragione sembra in qualche modo legata alla famiglia. La stramaledetta famiglia tradizionale, in cui è la donna che rinuncia al proprio lavoro. Quella famiglia che in molti difendono a spada tratta. Proprio lei.
Le donne con figli mollano prima il lavoro nella ricerca e lo fanno con una frequenza proporzionale al numero dei figli. Gli uomini invece si riproducono senza che questo, apparentemente, abbia il benché minimo impatto sul lavoro. (Gli uomini che mollano sono il 20% del totale, che abbiamo o no figli il risultato non cambia; per le donne con i figli la percentuale arriva a più del 40%)
Eppure non è tutto qui, perché anche le donne senza figli e marito emergono come penalizzate.
Mi hanno impressionato le parole di Hanna Valentine, ricercatrice della Stanford University, "una delle cause degli abbandoni della carriera accademica da parte delle donne è che non trovano in questo mondo niente che somigli loro". Vale a dire altre donne. E sole è difficile andare avanti. Così molliamo, lasciando sola qualche altra che mollerà e via così.
Solo il 34% delle assunzioni per un primo lavoro come postdoc è femminile.
Un'interessante ricerca di Jo Handelsman ha dato qualche grattacapo ai vertici delle università americane. A 27 professori (maschi e femmine) venivano sottoposti due curriculum falsi di due aspiranti postdoc con le stesse identiche caratteristiche. Uno maschio e una femmina. Alla fine della valutazione la maggior parte dei professori si diceva interessato all'assunzione di John ma non di Jennifer e le poche volte in cui anche Jennifer veniva virtualmente assunta prendeva 3000 dollari in meno di John all'anno.
Questo è solo un assaggio. Non è nemmeno l'aperitivo. E' la tartina che rubate di nascosto dal vassoio quando vostra madre non sta guardando.
C'è una valanga di roba da leggere al riguardo. Altri mille e mille numeri.
E la cosa divertente è che nessuno si è preso la briga di analizzare i numeri della ricerca medica. Si parla sempre di biologia, ecologia, ingegneria, astronomia. I medici donna non si sono voluti sporcare il camice rovistando nel cesto della spazzatura. Eppure sono convinta che troveremmo dati ancora peggiori, un baratro di disuguaglianza.
Parlo alle mie colleghe! Dovremo farlo, sporcarci il camice dico. Sarà necessario. Quindi state pronte!
Lo so che i numeri sono deprimenti. Poco fantasiosi, a volte possono sembrare addirittura vuoti di significato.
Ma sono l'unico modo di tappare la bocca a chi dice che "magari gli uomini sono più bravi!"
Appena ho un po' di tempo in più vi prometto una bibliografia completa sull'argomento.
Perché c'è da fare un gran lavoro.
Ne volete sentire una bella?
Sono stata a un congresso anche in Svezia, la settimana scorsa.
Indovinate quante donne c'erano a parlare di scienza.
Neanche una.
Mi auguro vi stiate già rimboccando le maniche.
giovedì 16 ottobre 2014
Tabù
Le parole che non si possono dire.
Sono solitamente contraria a bandire le parole. Mi piacciono tanto!
Però credo che il nostro modo di esprimerci abbai molto a che fare con la nostra cultura, proprio con il recondito. Ci sono espressioni e giri di parole barbaramente offensivi che abbiamo traslato di significato poco più in là e continuiamo a utilizzare, o che sottendono una mentalità becera e ignorante, ma che passano allegramente inosservati.
Ecco ce ne sono alcune, di espressioni, che non mi vanno giù e che credo dovremmo smettere di pronunciare. Sarebbe già un grande passo avanti notarle. Fatelo! Notatele! Notate quelle espressioni che umiliano senza farsi notare e poi me le potreste anche scrivere. Potremmo persino scriverne un bel dizionario. Il dizionario dei tabù.
Per quel che riguarda la disuguaglianza di genere, ne ho almeno una ventina.
Ve ne scrivo quattro, quelle che mi stanno più antipatiche in assoluto.
1. Isteria/Isterica.
Ci hanno fatto anche un filetto romantico da quattro soldi che qualche mia amica si ricorderà benissimo, ma l'isteria è una roba seria! Anzi, in realtà l'isteria è uno scherzo, perché non esiste.
Veniva indicata comunemente come isteria...qualsiasi cosa non sapessero diagnosticare Freud e compagni. Ovviamente in una paziente donna. Terapia: rimozione dell'utero (Hysteron), che in quanto organo che contiene la femminilità (intesa come l'essere femmina) portava via con sé tutto il male.
Oggi si dice che una è isterica quando è nervosa, agitata o di mal umore. Difficilmente lo sentirete dire a un uomo. E molto probabilmente lo sentirete dire abbinato alla frase "Sarà mestruata!", tanto per tornare all'utero causa di tutti i mali.
Vi sembrerà innocuo, ma ho sentito un esimio professore pochi anni fa dire di credere molto nell'esistenza dell'isteria, che si tratta di una malattia molto seria e pazzi quelli che l'hanno cancellata dalla lista delle malattie mentali!
A me, questo tizio, primario di neurologia di un ospedale di cui non posso dire il nome, è sembrato tutto tranne che innocuo.
Non è per fare la solita corvaccia nera del malaugurio...ma è un attimo che ci ritroviamo senza utero!
2. Sei una femminuccia/You hit like a girl.
Qualche mese fa un'amica mi ha mandato un video formidabile! Un video pubblicitario della Dove (a volte le pubblicità sono meravigliose, mannaggia a loro!) che focalizzava la stupidità di questo modo dire.
"Sei una femminuccia!" si dice ai maschi, chiaramente, e se non ve ne eravate accorte è un'offesa.
Quindi essere una femmina è un'offesa. In inglese si dice You hit like a girl (picchi come una ragazzina), o You run like a girl, o You swim like a girl. Tutto per dire che una ragazza corre, nuota e picchia peggio di un ragazzo. Nella maggior parte dei casi sarà pure vero. Ma allora perché non dire picchi come un vecchio, corri come un handicappato? Perché sarebbe assolutamente discriminatorio! Non si può fare!! E sono d'accordo. Ma perché io posso essere tranquillamente un termine di paragone di inferiorità? Senza contare che non corro peggio di tutti i maschi del mondo e sono sicura che picchio meglio di molti, fosse anche solo per una questione di rabbia repressa.
Spieghiamo ai bambini che si può essere più originali. Si può dire "Picchi come Gandhi", oppure "Corri come un pesce" e "Nuoti come un mattone".
3. Cosa ci fate qui tutte sole?
Questa credo sia la frase che mi fa più imbestialire di tutte le frasi del mondo. E' un concentrato di maschilismo bigotto da società patriarcale paleolitica. Ed è universale. Esiste in inglese, in svedese, in spagnolo, in francese...e temo anche in mandarino.
Quante volte vi è successo di essere con delle amiche a bere un caffè e si avvicina un conoscente che vi dice questa frase? Qualcuna, sicuramente.
Faccio l'analisi più breve che posso.
Il fatto che siamo in cinque, sei, sette, otto...non conta niente. Finchè non c'è un uomo con noi siamo sole. Una donna senza un uomo è sola. Corri a sposarti!
Sposati perché hai bisogno di protezione, da cosa? Non ha importanza. Da tutto!
E quel "cosa ci fate"? Magari state bevendo l'aperitivo, o facendo una passeggiata, ma niente ha senso senza un uomo vicino. La vostra stessa vita non ce l'ha. L'unica soluzione è avere sempre semprissimo un uomo al tuo fianco.
Chi si avvicinerebbe a un gruppo di uomini a chiedere: cosa ci fate qui tutti soli?
Beh, provate! Solo per vedere l'effetto che fa.
Volete che ve lo dico? Vi tolgo la sorpresa? Va bene, dai! Mutismo e sbigottimento. Andate e diffondete il verbo.
4. Ti stai facendo bella per uscire?
Ma sei stronzo? Questa dovrebbe essere l'unica risposta possibile. Invece sorridiamo impacciate. A volte non ci stavamo facendo belle, ci stavamo facendo la doccia e volevamo mettere un maglione dolcevita e jeans rotti sul ginocchio; ma come facciamo a deludere le aspettative.
Di solito è una frase che vi sentite dire dal vostro compagno, fidanzato, marito, amico di letto...chiunque sia autorizzato a sbirciare nel vostro bagno. E questo crea molti ordini di problemi.
Il primo è che se mi devo "fare bella" significa che prima non ero un granché.
Poi...se mi stavo facendo bella per davvero, adesso mi sento pirla. Uno non ti dovrebbe vedere mentre ti spalmi la faccia di una roba marroncina e spennelli qua e là. Dovrebbe vedere il risultato finale e il fatto che abbia colto sul fatto la preparazione fa l'effetto dell'apertura del forno a metà della cottura della torta margherita, affloscia.
Se invece mi stavo solo schiacciando un brufolo, mi sento in dovere di fare qualcosa per deludere delle aspettative.
Insomma è la frase che ingloba tutta la fragilità del corpo delle donne. Che le incatena agli specchi, alle bilance, alle creme anticellulite. Le donne, moltissime, cercano ancora l'approvazione dell'occhio maschile, a qualsiasi età. E tutte cercano l'approvazione del proprio compagno.
Sarebbe semplice. Forse dire "ti stai truccando?" suona diverso. "Ti metti un maglione o un vestito?" forse è meno brutale di un "Ti tiri a lucido stasera?".
Bisognerà chiedere una mano, temo. Almeno agli uomini che abbiamo scelto di avere vicino.
Se avete altre espressioni che pensate di voler bandire dalla lingua italiana, potete sfogarvi qui!
Come eravamo...
Non sono sempre stata femminista. Quando ero piccola non lo ero affatto. Anzi, volevo essere un maschio. E volevo fare un lavoro da maschio.
Quando a otto anni ho detto a mia madre, che ha fatto spallucce, che volevo fare il dottore, non mi immaginavo in uno studio tirato a lucido con una gonna e una camicia di seta sotto il camice stirato di fresco. Nossignore! Mi immaginavo in prima linea, in un ospedale da campo, con una cartucciera di siringhe e un bisturi tra i denti. La soldato Jane di tutti i dottori!
Il perché volessi essere un maschio è presto spiegato. Perché essere un maschio era più divertente. Niente vestiti scomodi, giochi più fichi, il privilegio di fare la pipì in piedi, la possibilità di fare la gara di rutti e nessuna mestruazione in arrivo. Quando le tue ovaie decidono di attivarsi a dieci anni, vorresti essere tutto tranne che una femmina. Piuttosto un cane o uno scimpanzé.
E poi i maschi adulti mi sembravano potenti. Non ho avuto un papà in giacca e cravatta, ma la sua tuta da meccanico mi sembrava comunque più interessante dei vestiti comuni di mia madre.
Mio padre e mio nonno mi sembravano quelli che prendevano tutte le decisioni in famiglia (ho dovuto crescere un po' per capire quanto non fosse vero!) e io volevo prendere decisioni.
Tutto nel mondo mi portava a desiderare di essere come loro e ci ho provato, per almeno una ventina d'anni. Ho avuto molti più amici maschi che femmine, per tutta la mia adolescenza. Suonavo con un gruppo di maschi. Bevevo come un maschio e mi piaceva che i miei amici me lo facessero notare (una terribile gara di resistenza che mi è costata una gastrite).
Quando ho iniziato ad accorgermi che mi piacevano i maschi le cose sono molto cambiate.
E non è stato allora che sono diventata femminista. Al contrario, sono caduta dentro a tutti i miseri cliché di questo mondo. Sono stata ossessionata dal mio corpo, a dieta per una buona parte dei miei anni migliori, in una continua altalena pericolosa tra l'essere originale e l'essere la copia di qualcosa che mi veniva proposto come perfetto.
Quando dormivo con qualcuno non mi struccavo, per paura di non essere bella a sufficienza. Pensavo, a volte, che un paio di jeans potessero farmi diventare qualcuno e risparmiavo i soldi per comprarmeli invece di spenderli per divertirmi davvero.
Volevo che gli uomini mi notassero. Lo so, lo so, che è tutto normale. Che non si tratta che di crescita e ormoni impazziti. Ma tutte queste ossessioni e manie hanno scavato talmente a fondo che ancora oggi mi faccio l'autoanalisi. Sto ancora imparando ad amarmi per quella che sono e a ignorare la propaganda dell'impossibile.
La prima volta che ho capito che volevo essere femminista è stato in un bar. Una mia amica mi aveva invitato per un tè tra donne. Era una specie di esperimento sociale, una chiacchierata per confessarsi tra sconosciute le ossessioni che riguardavano il corpo. Mi sono accorta che nemmeno una delle ragazze lì presenti era felice dell'immagine che lo specchio rifletteva, e tutte raccontavano storie di scherno e vergogna, di discriminazione. Battute stupide sul loro peso. Risate per il loro modo di vestire. Giochi di parole sul seno che non c'è. Una dopo l'altra quelle sconosciute mi hanno aperto gli occhi sul fatto che questa riunione i maschi non l'avrebbero potuta fare. Mai.
Allora ho capito che volevo essere una femmina. Sono tornata a casa più felice, senza capire bene il perché. E qualcosa si è acceso. Improvvisamente sono stata capace di vedere in un'ottica nuova, tutto quello che non andava. Mi sono tolta un velo dagli occhi e ho iniziato a notare tutto, e tutto di colpo.
E' stato come essere catapultata su un altro pianeta. Un pianeta pieno di cose da sistemare. Fino al giorno prima mi sembrava che andasse bene, combattevo per i diritti degli altri casomai, perché io, i diritti, li avevo già tutti. E fu come avere una torcia in mano, un immenso faro nella notte.
Quelle donne che bevevano il tè mi hanno fatto diventare femminista e non le ringrazierò mai abbastanza per questo. E non ringrazierò mai abbastanza la mia amica che ha fatto diventare queste confessioni una mostra interattiva che spiega a tutti il dolore che c'è dietro un certo tipo di violenza concessa e permessa.
Questa piccola cronistoria è per dire che non si nasce qualcosa, lo si diventa col tempo e con fatica. Come si fa con ogni conquista, ogni giorno bagno la mia piccola piantina femminista, il che significa anche bagnarla di rabbia per tutto ciò che vedo, leggo e sento (povere le mie orecchie!). Questo è per spiegare perché mi sono messa a scrivere di donne a ventotto anni e non a diciotto. E per dire anche che sento che all'ONU per i diritti delle donne ci dovrebbe essere una donna con i controcazzi e controcoglioni (scusate il francese), una che si è fatta un mazzo a studiare e informarsi e si è battuta per la causa, invece che Emma Watson. Una che avrebbe saputo cosa dire ai troll di internet che la minacciavano di morte.
E questo per dire anche viva Emma Watson, se continuerà il suo percorso e terrà fede a tutte le sue promesse. Viva lei e tutte le altre perché c'è un immenso bisogno di loro e non perché sono superstar, ma perchè sono donne.
Femministe non si nasce!
Quando a otto anni ho detto a mia madre, che ha fatto spallucce, che volevo fare il dottore, non mi immaginavo in uno studio tirato a lucido con una gonna e una camicia di seta sotto il camice stirato di fresco. Nossignore! Mi immaginavo in prima linea, in un ospedale da campo, con una cartucciera di siringhe e un bisturi tra i denti. La soldato Jane di tutti i dottori!
Il perché volessi essere un maschio è presto spiegato. Perché essere un maschio era più divertente. Niente vestiti scomodi, giochi più fichi, il privilegio di fare la pipì in piedi, la possibilità di fare la gara di rutti e nessuna mestruazione in arrivo. Quando le tue ovaie decidono di attivarsi a dieci anni, vorresti essere tutto tranne che una femmina. Piuttosto un cane o uno scimpanzé.
E poi i maschi adulti mi sembravano potenti. Non ho avuto un papà in giacca e cravatta, ma la sua tuta da meccanico mi sembrava comunque più interessante dei vestiti comuni di mia madre.
Mio padre e mio nonno mi sembravano quelli che prendevano tutte le decisioni in famiglia (ho dovuto crescere un po' per capire quanto non fosse vero!) e io volevo prendere decisioni.
Tutto nel mondo mi portava a desiderare di essere come loro e ci ho provato, per almeno una ventina d'anni. Ho avuto molti più amici maschi che femmine, per tutta la mia adolescenza. Suonavo con un gruppo di maschi. Bevevo come un maschio e mi piaceva che i miei amici me lo facessero notare (una terribile gara di resistenza che mi è costata una gastrite).
Quando ho iniziato ad accorgermi che mi piacevano i maschi le cose sono molto cambiate.
E non è stato allora che sono diventata femminista. Al contrario, sono caduta dentro a tutti i miseri cliché di questo mondo. Sono stata ossessionata dal mio corpo, a dieta per una buona parte dei miei anni migliori, in una continua altalena pericolosa tra l'essere originale e l'essere la copia di qualcosa che mi veniva proposto come perfetto.
Quando dormivo con qualcuno non mi struccavo, per paura di non essere bella a sufficienza. Pensavo, a volte, che un paio di jeans potessero farmi diventare qualcuno e risparmiavo i soldi per comprarmeli invece di spenderli per divertirmi davvero.
Volevo che gli uomini mi notassero. Lo so, lo so, che è tutto normale. Che non si tratta che di crescita e ormoni impazziti. Ma tutte queste ossessioni e manie hanno scavato talmente a fondo che ancora oggi mi faccio l'autoanalisi. Sto ancora imparando ad amarmi per quella che sono e a ignorare la propaganda dell'impossibile.
La prima volta che ho capito che volevo essere femminista è stato in un bar. Una mia amica mi aveva invitato per un tè tra donne. Era una specie di esperimento sociale, una chiacchierata per confessarsi tra sconosciute le ossessioni che riguardavano il corpo. Mi sono accorta che nemmeno una delle ragazze lì presenti era felice dell'immagine che lo specchio rifletteva, e tutte raccontavano storie di scherno e vergogna, di discriminazione. Battute stupide sul loro peso. Risate per il loro modo di vestire. Giochi di parole sul seno che non c'è. Una dopo l'altra quelle sconosciute mi hanno aperto gli occhi sul fatto che questa riunione i maschi non l'avrebbero potuta fare. Mai.
Allora ho capito che volevo essere una femmina. Sono tornata a casa più felice, senza capire bene il perché. E qualcosa si è acceso. Improvvisamente sono stata capace di vedere in un'ottica nuova, tutto quello che non andava. Mi sono tolta un velo dagli occhi e ho iniziato a notare tutto, e tutto di colpo.
E' stato come essere catapultata su un altro pianeta. Un pianeta pieno di cose da sistemare. Fino al giorno prima mi sembrava che andasse bene, combattevo per i diritti degli altri casomai, perché io, i diritti, li avevo già tutti. E fu come avere una torcia in mano, un immenso faro nella notte.
Quelle donne che bevevano il tè mi hanno fatto diventare femminista e non le ringrazierò mai abbastanza per questo. E non ringrazierò mai abbastanza la mia amica che ha fatto diventare queste confessioni una mostra interattiva che spiega a tutti il dolore che c'è dietro un certo tipo di violenza concessa e permessa.
Questa piccola cronistoria è per dire che non si nasce qualcosa, lo si diventa col tempo e con fatica. Come si fa con ogni conquista, ogni giorno bagno la mia piccola piantina femminista, il che significa anche bagnarla di rabbia per tutto ciò che vedo, leggo e sento (povere le mie orecchie!). Questo è per spiegare perché mi sono messa a scrivere di donne a ventotto anni e non a diciotto. E per dire anche che sento che all'ONU per i diritti delle donne ci dovrebbe essere una donna con i controcazzi e controcoglioni (scusate il francese), una che si è fatta un mazzo a studiare e informarsi e si è battuta per la causa, invece che Emma Watson. Una che avrebbe saputo cosa dire ai troll di internet che la minacciavano di morte.
E questo per dire anche viva Emma Watson, se continuerà il suo percorso e terrà fede a tutte le sue promesse. Viva lei e tutte le altre perché c'è un immenso bisogno di loro e non perché sono superstar, ma perchè sono donne.
Femministe non si nasce!
martedì 14 ottobre 2014
Lettere da dove?
Non sarò certo io a scrivervi quanti abitanti ha Uppsala o quali monumenti dovete assolutamente visitare, o quante persone sono impiegate nel settore terziario nelle Uppland in Svezia. Nossignore!
Però mi sembrava importante, mettere almeno un puntino sul posto remoto dal quale parlo ad un immaginario conclave femminile di cose che sono molto legate all'ambiente che ho attorno. Mettere la bandierina.
Ma niente pappardelle alla Wikipedia.
Uppsala è un posto dello spirito.
Se state pensando che sia il corrispettivo letterario di "un posto in cui non c'è niente da fare", non siete lontani dalla realtà, ma è comunque una definizione approssimativa.
Se pensate che con spirito stia alludendo ad alcol...beh, non siete lontani dalla realtà nemmeno in questo caso.
Uppsala è un nome buffo. Per cominciare.
Significa Città del Nord. Fantasioso, penserete. Fatto sta che di città più a Nord di Uppsala ce ne sono, ma si tratta di piccole comunità che non assomigliano neanche lontanamente alla nostra idea di agglomerato urbano. Quindi Uppsala è l'ultima città del Nord, da un punto di vista svedese, ovviamente.
Questo dà, e qui parlo di me, una certa sensazione di fierezza. Come se si stesse a difesa del lato Nord dell'Europa. Lungi da me insinuare l'idea dei confini in questo incasinato momento storico. La sensazione che ho è più quella che potrebbe provare uno svedese del 1600 pronto a eventuali invasioni barbariche dalla Lapponia.
E le invasioni barbariche arrivano puntualmente. Ogni novembre. Quando il vento del Nord dirige ed piega l'uomo a proprio piacimento.
E allora non resta che dire di sì al vento del Nord, ma sempre a testa alta. Che ci pieghi ma non ci spezzi, insomma!
Mentre parlavo dell'inverno in arrivo con un amico, lui mi interrompe (si può interrompere in una chat? Bah...forse sì, quando si digita con veemenza!) e mi scrive: Sembrate sempre sull'orlo dell'Apocalisse. E forse è l'idea che diamo, soprattutto noi migranti da Sud.
In inverno, ci si muove più lenti, nel buio, un po' arrancando (ma, per dio, ci si muove comunque!).
La casa diventa il focolare, quello dove davvero non si vede l'ora di ritornare. La cucina è la parte della casa più importante, quella che si vive di più; perché nutrirsi e farlo bene è di fondamentale importanza per stare in piedi dritti nella neve. E le riunioni casalinghe davanti a zuppe e risotti saranno il passatempo di un inverno intero.
Lo spirito beneficia di cose molto materiali. O per lo meno, il suo rinnovamento passa attraverso il tangibile.
Il freddo, la fatica e il superamento di tutto questo. Arrivare a sentirsi a proprio agio in condizioni estreme.
E' un po' come essere il Rocky Balboa dei ghiacci. Quando il vostro corpo si sarà abituato al buio e al freddo salirete la dannata scalinata cantando Eye of the Tiger.
E sarà il vostro spirito ad aver raggiunto il traguardo.
Uppsala è anche una delle Università più antiche del mondo.
In ogni paese che ho visitato, gente del posto mi ha giurato che la seconda università più antica del mondo si trovava proprio lì, nella loro patria. Così è successo a Uppsala. Quindi diciamo che è UNA DELLE più antiche del mondo, perché sulla questione università e antichità la mia fiducia vacilla. Interessante è che nessuno si azzarda a dire di avere l'Università più antica in assoluto, perché è davvero universale che quella sia Bologna! Siamo riusciti a zittire nei secoli persino i francesi!
A Uppsala gli studenti sono i re della città. Organizzano vere e proprie scorribande notturne.
La città vive di questo, della propria cultura.
Ed è famosa in tutto il mondo per essere un centro di ricerca medica.
Eccoci, siamo arrivati al punto: io cosa ci faccio qui.
E siamo anche arrivati al momento in cui si fa sul serio con la missione informativa.
Ci addentriamo nel mondo della ricerca, delle donne nella ricerca più in particolare, mentre fuori la temperatura scende, giorno dopo giorno.
Vedremo se all'arrivo della primavera, oltre allo spirito da pugile imbattibile, avremo anche capito come si fa a fare ricerca oggi, dove e soprattutto a che prezzo.
Però mi sembrava importante, mettere almeno un puntino sul posto remoto dal quale parlo ad un immaginario conclave femminile di cose che sono molto legate all'ambiente che ho attorno. Mettere la bandierina.
Ma niente pappardelle alla Wikipedia.
Uppsala è un posto dello spirito.
Se state pensando che sia il corrispettivo letterario di "un posto in cui non c'è niente da fare", non siete lontani dalla realtà, ma è comunque una definizione approssimativa.
Se pensate che con spirito stia alludendo ad alcol...beh, non siete lontani dalla realtà nemmeno in questo caso.
Uppsala è un nome buffo. Per cominciare.
Significa Città del Nord. Fantasioso, penserete. Fatto sta che di città più a Nord di Uppsala ce ne sono, ma si tratta di piccole comunità che non assomigliano neanche lontanamente alla nostra idea di agglomerato urbano. Quindi Uppsala è l'ultima città del Nord, da un punto di vista svedese, ovviamente.
Questo dà, e qui parlo di me, una certa sensazione di fierezza. Come se si stesse a difesa del lato Nord dell'Europa. Lungi da me insinuare l'idea dei confini in questo incasinato momento storico. La sensazione che ho è più quella che potrebbe provare uno svedese del 1600 pronto a eventuali invasioni barbariche dalla Lapponia.
E le invasioni barbariche arrivano puntualmente. Ogni novembre. Quando il vento del Nord dirige ed piega l'uomo a proprio piacimento.
E allora non resta che dire di sì al vento del Nord, ma sempre a testa alta. Che ci pieghi ma non ci spezzi, insomma!
Mentre parlavo dell'inverno in arrivo con un amico, lui mi interrompe (si può interrompere in una chat? Bah...forse sì, quando si digita con veemenza!) e mi scrive: Sembrate sempre sull'orlo dell'Apocalisse. E forse è l'idea che diamo, soprattutto noi migranti da Sud.
In inverno, ci si muove più lenti, nel buio, un po' arrancando (ma, per dio, ci si muove comunque!).
La casa diventa il focolare, quello dove davvero non si vede l'ora di ritornare. La cucina è la parte della casa più importante, quella che si vive di più; perché nutrirsi e farlo bene è di fondamentale importanza per stare in piedi dritti nella neve. E le riunioni casalinghe davanti a zuppe e risotti saranno il passatempo di un inverno intero.
Lo spirito beneficia di cose molto materiali. O per lo meno, il suo rinnovamento passa attraverso il tangibile.
Il freddo, la fatica e il superamento di tutto questo. Arrivare a sentirsi a proprio agio in condizioni estreme.
E' un po' come essere il Rocky Balboa dei ghiacci. Quando il vostro corpo si sarà abituato al buio e al freddo salirete la dannata scalinata cantando Eye of the Tiger.
E sarà il vostro spirito ad aver raggiunto il traguardo.
Uppsala è anche una delle Università più antiche del mondo.
In ogni paese che ho visitato, gente del posto mi ha giurato che la seconda università più antica del mondo si trovava proprio lì, nella loro patria. Così è successo a Uppsala. Quindi diciamo che è UNA DELLE più antiche del mondo, perché sulla questione università e antichità la mia fiducia vacilla. Interessante è che nessuno si azzarda a dire di avere l'Università più antica in assoluto, perché è davvero universale che quella sia Bologna! Siamo riusciti a zittire nei secoli persino i francesi!
A Uppsala gli studenti sono i re della città. Organizzano vere e proprie scorribande notturne.
La città vive di questo, della propria cultura.
Ed è famosa in tutto il mondo per essere un centro di ricerca medica.
Eccoci, siamo arrivati al punto: io cosa ci faccio qui.
E siamo anche arrivati al momento in cui si fa sul serio con la missione informativa.
Ci addentriamo nel mondo della ricerca, delle donne nella ricerca più in particolare, mentre fuori la temperatura scende, giorno dopo giorno.
Vedremo se all'arrivo della primavera, oltre allo spirito da pugile imbattibile, avremo anche capito come si fa a fare ricerca oggi, dove e soprattutto a che prezzo.
venerdì 10 ottobre 2014
Bianca
Non è un post sulla neve. E' un post rilassante da venerdì pomeriggio, quando sai che presto uscirai dal lavoro e chiuderai quell'area del tuo cervello per un paio di giorni.
Un post che non vuole infierire sulla condizione delle donne, svedesi o italiane, o sulla triste realtà culturale di certe aree geografiche. Abbiamo detto che è venerdì, no?
Un post che parla di Bianca.
Poche settimane fa mi sono divertita a scrivere su Facebook la classifica dei dieci libri più importanti della mia vita. Un tormentone di gran moda tra gli utenti delle reti sociali (mi spiace di fare l'italianista, ma la parola social network la sopporto appena, la sento dire troppo spesso e credo sia una delle poche parole che viene usata in modo appropriato, il ché mi riempie di tristezza). Scrivere la lista è stato divertente e molto faticoso. I grandi classici inculcati da vecchie professoresse di lettere, che ti entrano nella pelle quando ti lasci andare, han dovuto gareggiare contro titani dell'autodeterminazione adolescenziale come No Logo di Naomi Klein o tutta l'opera omnia di Thoreau. Per non parlare dei libri che mi piacciono e basta, che mi hanno straziato l'anima e tormentato notti in bianco con la lucina accesa, che rileggerei cento volte fino a credere che quella raccontata sia l'unica realtà possibile. Insomma un bel casino.
Dieci è proprio un numero del cavolo. Fossero stati almeno 20, 50, magari 100. Eh sì, perché se, in tutto lo scritto universale, scelgo di leggere qualcosa l'ho già reso importante, degno della mia attenzione, del mio tempo. Ho già scremato e sicuramente qualcuno ha indirizzato la mia scelta.
Un amico che mi ha detto che mi potrebbe piacere un autore, la mia rivista preferita che recensisce con cinque stelline un volume o un libro che è importante per qualcuno a cui voglio bene.
E tante volte hanno scelto per me. Mi hanno regalato libri e li ho letti sempre, perché bisogna dare fiducia a chi regala libri, senza se e senza ma.
Quando ero piccola era diverso.
Andavo alla biblioteca di Ponte San Pietro una volta la settimana. Le uniche cose che potevano aiutarmi nella scelta erano: i titoli, l'immagine di copertina e il profumo della carta.
Nonostante questa limitata capacità di discernimento, le mie letture infantili sono state ottime, segno che c'è più di un'alchimia tra i libri e il lettore.
Per fortuna, tra i volumi disponibili nello spazio Giovani, c'era anche Bianca.
Bianca Pitzorno. Probabilmente non vi dico niente di nuovo. La maggior parte di voi starà sorridendo. Starà pensando ad Asdrubale con i denti ammuffiti e i brufoli di Streghetta Mia, o alla piccola Lavinia infreddolita la notte di Natale, per non parlare di quella furia di Prisca di Ascolta il mio cuore.
Quando lessi Speciale Violante, capii che non avrei mai più potuto fare a meno della letteratura, che i libri non erano solo fatti per imparare, ma anche per sognare.
Devo molto a Bianca Pitzorno, come donna, oltre che come lettrice. Nelle sue storie, il femminismo è raccontato delicatamente, ma senza mezzi termini. Le sue bambine coraggiose e intelligenti sono il preludio delle donne che hanno letto quelle storie da piccole, coraggiose e intelligenti. Alleate, soprattutto.
Le bambine di Bianca Pitzorno sono alleate, amiche, unite. Non si invidiano, non si odiano e percorrono la vita per mano.
Il mito delle amiche invidiose è una stupida trovata dell'imperialismo maschile che ha vissuto per secoli sul "divide et impera", come dice Bianca in una bella intervista.
Oggi mi sono ricordata di lei, del suo elegante lavoro educativo, così importante. Ogni tanto ci si scorda dell'ovvio e io ho vergognosamente dimenticato i suoi libri nella mia top ten.
Forse li ho dimenticati proprio perché vengono prima ancora, prima della consapevolezza di star leggendo e provare piacere nel farlo. Sono stati il faro che mi ha fatto tornare in quella biblioteca per anni.
Se per caso non siete state fortunate quanto me, o la vostra biblioteca non ha potuto sostenervi e siete a corto di Bianca, beh...è ora di cominciare e non importa quanti anni avete. Sono libri per bambine, ma sono libri seri!
Un post che non vuole infierire sulla condizione delle donne, svedesi o italiane, o sulla triste realtà culturale di certe aree geografiche. Abbiamo detto che è venerdì, no?
Un post che parla di Bianca.
Poche settimane fa mi sono divertita a scrivere su Facebook la classifica dei dieci libri più importanti della mia vita. Un tormentone di gran moda tra gli utenti delle reti sociali (mi spiace di fare l'italianista, ma la parola social network la sopporto appena, la sento dire troppo spesso e credo sia una delle poche parole che viene usata in modo appropriato, il ché mi riempie di tristezza). Scrivere la lista è stato divertente e molto faticoso. I grandi classici inculcati da vecchie professoresse di lettere, che ti entrano nella pelle quando ti lasci andare, han dovuto gareggiare contro titani dell'autodeterminazione adolescenziale come No Logo di Naomi Klein o tutta l'opera omnia di Thoreau. Per non parlare dei libri che mi piacciono e basta, che mi hanno straziato l'anima e tormentato notti in bianco con la lucina accesa, che rileggerei cento volte fino a credere che quella raccontata sia l'unica realtà possibile. Insomma un bel casino.
Dieci è proprio un numero del cavolo. Fossero stati almeno 20, 50, magari 100. Eh sì, perché se, in tutto lo scritto universale, scelgo di leggere qualcosa l'ho già reso importante, degno della mia attenzione, del mio tempo. Ho già scremato e sicuramente qualcuno ha indirizzato la mia scelta.
Un amico che mi ha detto che mi potrebbe piacere un autore, la mia rivista preferita che recensisce con cinque stelline un volume o un libro che è importante per qualcuno a cui voglio bene.
E tante volte hanno scelto per me. Mi hanno regalato libri e li ho letti sempre, perché bisogna dare fiducia a chi regala libri, senza se e senza ma.
Quando ero piccola era diverso.
Andavo alla biblioteca di Ponte San Pietro una volta la settimana. Le uniche cose che potevano aiutarmi nella scelta erano: i titoli, l'immagine di copertina e il profumo della carta.
Nonostante questa limitata capacità di discernimento, le mie letture infantili sono state ottime, segno che c'è più di un'alchimia tra i libri e il lettore.
Per fortuna, tra i volumi disponibili nello spazio Giovani, c'era anche Bianca.
Bianca Pitzorno. Probabilmente non vi dico niente di nuovo. La maggior parte di voi starà sorridendo. Starà pensando ad Asdrubale con i denti ammuffiti e i brufoli di Streghetta Mia, o alla piccola Lavinia infreddolita la notte di Natale, per non parlare di quella furia di Prisca di Ascolta il mio cuore.
Quando lessi Speciale Violante, capii che non avrei mai più potuto fare a meno della letteratura, che i libri non erano solo fatti per imparare, ma anche per sognare.
Devo molto a Bianca Pitzorno, come donna, oltre che come lettrice. Nelle sue storie, il femminismo è raccontato delicatamente, ma senza mezzi termini. Le sue bambine coraggiose e intelligenti sono il preludio delle donne che hanno letto quelle storie da piccole, coraggiose e intelligenti. Alleate, soprattutto.
Le bambine di Bianca Pitzorno sono alleate, amiche, unite. Non si invidiano, non si odiano e percorrono la vita per mano.
Il mito delle amiche invidiose è una stupida trovata dell'imperialismo maschile che ha vissuto per secoli sul "divide et impera", come dice Bianca in una bella intervista.
Oggi mi sono ricordata di lei, del suo elegante lavoro educativo, così importante. Ogni tanto ci si scorda dell'ovvio e io ho vergognosamente dimenticato i suoi libri nella mia top ten.
Forse li ho dimenticati proprio perché vengono prima ancora, prima della consapevolezza di star leggendo e provare piacere nel farlo. Sono stati il faro che mi ha fatto tornare in quella biblioteca per anni.
Se per caso non siete state fortunate quanto me, o la vostra biblioteca non ha potuto sostenervi e siete a corto di Bianca, beh...è ora di cominciare e non importa quanti anni avete. Sono libri per bambine, ma sono libri seri!
lunedì 6 ottobre 2014
Picco di reminiscenza
Sono atterrata a Skavsta, l'aeroporto in assoluto più scomodo per raggiungere Uppsala. E' l'aeroporto Ryanair, voli low cost ma atterri in posti mai sentiti nominare, tendenzialmente in mezzo al nulla e a distanze intergalattiche dal posto in cui sei diretto.
Skavsta in particolare è a sud di Stoccolma e a più di 200 km da casa mia.
L'autobus della Flygbussarna, col suo logo arcobaleno, attraversa la foresta.
Tra la cittadina di Skavsta, piccola e assolutamente priva di interesse (fatto salvo per l'aeroporto), e la capitale c'è solo foresta. Qualche casetta rossa coi profili bianchi qua e là.
E' una foresta un po' addomesticata, ma non è niente male; e, anche se coperta di bianco da' tutta un'altra suggestione, l'autunno le sta bene. Spuntano faggi gialli e rossi in mezzo alle conifere verde scuro e il vento freddo del nord fa volare le foglie nelle radure, le accumula e poi le disperde.
Con il cielo di oggi, nuvoloso e bassissimo sopra la testa, viene voglia di arrivare a casa presto e infilarsi dritti sotto le coperte, leggere un libro di avventure in posti tropicali e bere il lungo caffè di sempre.
Invece ci vogliono quasi quattro di ore dalla pensilina del Flygbussarna "to Stockholm city" alla porta del mio palazzo.
Faccio quello che ho imparato, o meglio, che la Svezia mi ha insegnato: aspetto serenamente. Scivolo sull'autostrada tra gli alberi e elimino la pulsione di schiacciare un immaginario acceleratore del tempo per cancellare quelle ore inutili.
Forse non sono così inutili.
Si possono fare mille cose mentre aspetti. Se hai la fortuna di aspettare in movimento, troverai sempre un finestrino, un oblò o un tettuccio apribile da cui guardare le cose scorrere. Sentirti un fiume.
E se proprio la foresta Skavsta-Stoccolma dopo qualche chilometro annoia, si apre la borsa e si cerca con la mano il compagno fondamentale di ogni spostamento aereo. Per qualcuno sarà la settimana enigmistica, il classico romanzo non troppo impegnativo (basta che non sia Fabio Volo!), un fumetto giapponese.
Per me è L'Internazionale. Lo compro solo in aeroporto, e solitamente lo divoro nel tempo del viaggio.
Nella quotidianità della mia settimana non c'è spazio temporale sufficiente per inserire un L'Internazionale intero (ma forse la Svezia mi insegnerà a trovare anche quello). Quindi, siccome lo adoro, mi accontento di leggere le notizie brevi on line e di acchiapparlo appena passo da un aeroporto italiano qualunque.
Ognuno ha i suoi rituali!
Apro alla pagina 74 e leggo un articolo sulla memoria. Anzi, sull'amnesia infantile, ovvero il fatto che gli adulti non ricordano un accidenti o quasi dei loro primi tre anni di vita.
Da Freud in poi si sono sprecate le teorie sul perché questo succeda, ma nessuno è arrivato da nessuna parte (e parlando da persona "del settore", fa tirare un sospiro di sollievo che il cervello dia ancora del filo da torcere agli scienziati!).
Leggo: "[...] Quando il bambino cresce, i ricordi corrono meno il rischio di essere distorti o di andare distrutti. La maggior parte di quelli che ci portiamo dietro per tutta la vita si è formata tra i 15 e i 30, durante il cosiddetto "picco di reminiscenza", quando investiamo molte energie nell'analizzare il nostro passato per cercare di capire chi siamo. Gli eventi, le persone e la cultura di quel periodo rimangono in noi e possono offuscare il presente. Pensiamo che i film, la musica, la moda le amicizie e le storie d'amore di quel periodo fossero migliori di quelle di oggi."
Sono alla fine del picco di reminiscenza. Questo è stato il mio primo pensiero.
Il secondo pensiero è stato che gli scienziati ne sanno una più del diavolo.
Quello che mi è sembrato affascinante è la nuova luce che questa apparentemente innocua frase sulla memoria getta sulle nostre vite quotidiane.
Avete presente quando vostra madre vi dice che ai suoi tempi le amicizie erano più vere, più profonde e le persone più sincere? Adesso potrete dirle che è solo un'illusione dovuta al picco di reminiscenza.
E con quante cose farete pace finalmente! Con i film di oggi che fanno schifo, con gli adolescenti che sono dei cafoni, con la vostra città che una volta era vivibile e invece ora, con il vostro compagno che non sarà mai come il vostro primo vero amore.
Magari era proprio questa l'informazione che ci mancava per zittire una buona volta tutti i noi stessi giovani e scapestrati che ad ogni passo della strada ci sussurrano all'orecchio: "era meglio prima!"
Skavsta in particolare è a sud di Stoccolma e a più di 200 km da casa mia.
L'autobus della Flygbussarna, col suo logo arcobaleno, attraversa la foresta.
Tra la cittadina di Skavsta, piccola e assolutamente priva di interesse (fatto salvo per l'aeroporto), e la capitale c'è solo foresta. Qualche casetta rossa coi profili bianchi qua e là.
E' una foresta un po' addomesticata, ma non è niente male; e, anche se coperta di bianco da' tutta un'altra suggestione, l'autunno le sta bene. Spuntano faggi gialli e rossi in mezzo alle conifere verde scuro e il vento freddo del nord fa volare le foglie nelle radure, le accumula e poi le disperde.
Con il cielo di oggi, nuvoloso e bassissimo sopra la testa, viene voglia di arrivare a casa presto e infilarsi dritti sotto le coperte, leggere un libro di avventure in posti tropicali e bere il lungo caffè di sempre.
Invece ci vogliono quasi quattro di ore dalla pensilina del Flygbussarna "to Stockholm city" alla porta del mio palazzo.
Faccio quello che ho imparato, o meglio, che la Svezia mi ha insegnato: aspetto serenamente. Scivolo sull'autostrada tra gli alberi e elimino la pulsione di schiacciare un immaginario acceleratore del tempo per cancellare quelle ore inutili.
Forse non sono così inutili.
Si possono fare mille cose mentre aspetti. Se hai la fortuna di aspettare in movimento, troverai sempre un finestrino, un oblò o un tettuccio apribile da cui guardare le cose scorrere. Sentirti un fiume.
E se proprio la foresta Skavsta-Stoccolma dopo qualche chilometro annoia, si apre la borsa e si cerca con la mano il compagno fondamentale di ogni spostamento aereo. Per qualcuno sarà la settimana enigmistica, il classico romanzo non troppo impegnativo (basta che non sia Fabio Volo!), un fumetto giapponese.
Per me è L'Internazionale. Lo compro solo in aeroporto, e solitamente lo divoro nel tempo del viaggio.
Nella quotidianità della mia settimana non c'è spazio temporale sufficiente per inserire un L'Internazionale intero (ma forse la Svezia mi insegnerà a trovare anche quello). Quindi, siccome lo adoro, mi accontento di leggere le notizie brevi on line e di acchiapparlo appena passo da un aeroporto italiano qualunque.
Ognuno ha i suoi rituali!
Apro alla pagina 74 e leggo un articolo sulla memoria. Anzi, sull'amnesia infantile, ovvero il fatto che gli adulti non ricordano un accidenti o quasi dei loro primi tre anni di vita.
Da Freud in poi si sono sprecate le teorie sul perché questo succeda, ma nessuno è arrivato da nessuna parte (e parlando da persona "del settore", fa tirare un sospiro di sollievo che il cervello dia ancora del filo da torcere agli scienziati!).
Leggo: "[...] Quando il bambino cresce, i ricordi corrono meno il rischio di essere distorti o di andare distrutti. La maggior parte di quelli che ci portiamo dietro per tutta la vita si è formata tra i 15 e i 30, durante il cosiddetto "picco di reminiscenza", quando investiamo molte energie nell'analizzare il nostro passato per cercare di capire chi siamo. Gli eventi, le persone e la cultura di quel periodo rimangono in noi e possono offuscare il presente. Pensiamo che i film, la musica, la moda le amicizie e le storie d'amore di quel periodo fossero migliori di quelle di oggi."
Sono alla fine del picco di reminiscenza. Questo è stato il mio primo pensiero.
Il secondo pensiero è stato che gli scienziati ne sanno una più del diavolo.
Quello che mi è sembrato affascinante è la nuova luce che questa apparentemente innocua frase sulla memoria getta sulle nostre vite quotidiane.
Avete presente quando vostra madre vi dice che ai suoi tempi le amicizie erano più vere, più profonde e le persone più sincere? Adesso potrete dirle che è solo un'illusione dovuta al picco di reminiscenza.
E con quante cose farete pace finalmente! Con i film di oggi che fanno schifo, con gli adolescenti che sono dei cafoni, con la vostra città che una volta era vivibile e invece ora, con il vostro compagno che non sarà mai come il vostro primo vero amore.
Magari era proprio questa l'informazione che ci mancava per zittire una buona volta tutti i noi stessi giovani e scapestrati che ad ogni passo della strada ci sussurrano all'orecchio: "era meglio prima!"
sabato 4 ottobre 2014
Le cinque cose da non dire a uno svedese
In ogni posto ci sono cose da non dire, o che sarebbe molto meglio tacere per garantirsi una rapido e liscio ingresso in società.
Potrei fare un elenco delle persone straniere che, quando ho detto di essere italiana, hanno risposto: Il Padrino (che non è nemmeno un film italiano)! E quando vedevano che rimanevo lì, confusa e corrucciata, mettevano fine ad ogni possibilità di relazione con un giocoso: "ma la mafia non esiste!"
Ecco, questo post vuole essere un piccolo codice di comportamento per i primissimi tempi di vita al Nord. Una guida facilissima con cinque consigli che aiutano a evitare sguardi di disapprovazione.
Non pensiate che dicendo una qualsiasi di queste cose scalfirete in alcun modo la corazza di gentilezza estenuante del vichingo. Quindi non usatela (la guida) come esperimento sociale!
Non pensiate che dicendo una qualsiasi di queste cose scalfirete in alcun modo la corazza di gentilezza estenuante del vichingo. Quindi non usatela (la guida) come esperimento sociale!
L'obiettivo non è spaventarvi. Dopo un'accurata conoscenza ed esplorazione, potrete esprimervi al massimo delle vostre potenzialità. Ma per le prime settimane è bene evitare di scivolare sulle bucce di banana.
Cosa non dire...
Cosa non dire...
1. Che fumate.
Non ditelo. Corrisponderebbe alla morte civile.
La Svezia è orgogliosa (orgogliosissima direi!) di aver eliminato una grossa fetta di patologie polmonari provocate dal fumo. Il capo del mio dipartimento ne è entusiasta. E fa molto bene. La loro restrittiva politica sul fumo e il costo del tabacco (da urlo!) hanno portato a ridurre la percentuale di fumatori all'1% della popolazione totale.
Fumare è una stigmate sociale enorme. Si viene guardati come persone che hanno una dipendenza, cosa è che verissima, ma non è vissuta nello stesso modo nell'Europa del Sud.
Se siete nicotina-dipendenti (come la sottoscritta) trovatevi dei nascondigli sicuri, munitevi di collutorio e buona fortuna!
Potreste anche pensare di smettere per non sentire la pressione sociale degli sguardi altrui.
Chiaramente nessuno svedese si arrabbierà con voi o sarà scortese se chiedete di poter uscire in balcone a fumare una sigaretta, ma vi sorbirete una lunga ramanzina sui danni del fumo. Ogni santa volta.
Dopo qualche tempo potrete certamente permettervi di parlarne con i vostri amici o colleghi svedesi cercando di mettere le sigarette sullo stesso piano dell'alcol, il loro tallone d'Achille!
2. Che fate ricerca su modello animale.
Sì, faccio ricerca su dei poveri maialini. Praticamente tanti piccoli Babe. Non è questo il posto adatto per una disquisizione in materia e per convincervi che questo sia necessario per migliorare le condizioni di salute dei vostri figli, quindi evito il sermone.
Ma se state pensando che è crudele, che gli animali vanno rispettati, che bisogna trovare un'alternativa e che i ricercatori sono mostri, complimenti! La pensate come lo svedese medio.
La vita a contatto con la natura li ha resi molto sensibili e le manifestazioni (silenziose) per i diritti degli animali si sprecano.
Io ho fatto outing la sera del mio arrivo, a cena con un gruppo di amici della mia coinquilina, fiduciosa di trovarmi nel paese di ampie e luminose vedute, non sapendo di essere finita in un covo di animalisti. E' stato abbastanza tragico, ve lo assicuro.
Se siete vegani, ambientalisti, animalisti o anti-pellicce troverete la Svezia un luogo accogliente e pieno di approvazione per il vostro impegno.
Io da vegetariana che lavora coi maiali (non certo per scelta personale), mi trovo ad ammirarli e a odiarli nello stesso tempo e spero che il karma possa bilanciare la mia attività di pig-killer con i miei dieci anni di digiuno carnivoro.
L'altra faccia della medaglia? La caccia sportiva, che coinvolge un numero enorme di persone. Contraddizioni nordiche. Ma ne parliamo un'altra volta.
3. Che la Russia è un paese bellissimo.
Ricordate che la Russia ha cercato di invadere la Scandinavia più volte? Ecco, non dimenticatelo quando parlate di politica estera al brunch domenicale.
Putin è malvisto e poco tollerato, anche e soprattutto per il suo pugno di ferro sui diritti degli omosessuali. La Svezia ha estremo rispetto dei diversi orientamenti sessuali dei suoi abitanti e mal sopporta il governo russo e le sue prese di posizione.
Non ne avevo idea quando ho detto che ero entusiasta che mia sorella avesse deciso di studiare russo perché avrebbe avuto la possibilità di entrare in contatto con una cultura antica e piena di meraviglie letterarie e artistiche. Sembrava che nel bicchiere del mio interlocutore si fosse materializzata una cacca di cane!
4. Mai, mai, mai scrivere un secondo messaggio/chiamata/mail a uno svedese, se non ha risposto al primo.
Questa è la golden rule. Non dimenticatelo!
Se uno svedese non risponde al vostro messaggio o alla vostra chiamata è perché non vuole e richiamandolo lo farete sentire in imbarazzo e costretto a rispondervi. Lo metterete in difficoltà. Avrete invaso la sua privacy.
Se volete affittare una casa e il proprietario vi dice che la casa è vostra dal giorno tot senza chiedervi di firmare niente, smettete di chiamarlo per avere la riconferma ogni giorno o rischiate di perdere l'appartamento. Se ha detto sì, significa sì e non sentirà più il bisogno di comunicare con voi fino alla consegna delle chiavi. Tutto quello che farete per sentirvi rassicurati (mica che per caso ha cambiato idea!) o i messaggini che gli scriverete per ringraziarlo gli daranno immenso fastidio.
Il vostro capo non vi chiamerà mai durante il week end o fuori dall'orario lavorativo per chiedervi di controllare i dati dell'excel che gli avete mandato perché non gli tornano. Sarebbe invadere la vostra privacy. Chiamare le persone dopo le otto di sera o nei week end è invadere la privacy. Scrivere messaggi o mail che chiedono conferme è invadere la privacy. Non parliamo nemmeno di suonare il campanello della gente per un salutino.
Le persone si vedono in orari prestabiliti e con la dovuta previa organizzazione. E tra sconosciuti si comunica il minimo indispensabile.
Mi raccomando, almeno all'inizio! Poi col tempo, quando avranno imparato a conoscervi per quello che siete (italiani), potrete permettervi di invadere le loro privacy con la scusa del gap culturale.
5. Fare commenti a proposito di una collega (o di un collega).
L'unico modo per farsi licenziare in Svezia è infastidire una/un collega di lavoro. Le molestie sessuali non sono pacche sul sedere o mani nel reggiseno, qui.
La molestia è una parola o un commento sfuggito in mensa o in corridoio.
Gli svedesi sono infinitamente attenti a tutto questo. Un po' ovunque, ma soprattutto sul posto di lavoro. Lo fanno per paura, forse, più che per convinzione. Ma, come già accennavo, lo trovo molto rilassante.
Ieri sera a cena, chiacchieravo della cosa con un mio collega cileno. Sono stata io che parlando di una collega ho detto: "ma tu non pensi che sia bellissima?". Parlavamo castigliano, almeno lui non avrebbe rischiato il licenziamento e il rimpatrio per una frase detta male.
Mi ha risposto che: sì, è bellissima. Ma ha aggiunto che non è ben visto un commento del genere. Io ho sorriso a trentadue denti. Ho pensato: "Questa Svezia li frusta a dovere i virgulti di macho latino doc!".
Mi raccomando, perché la stessa cosa vale anche per le donne. Nessun commento sul vostro collega giovane e carino. Ci metterebbe un secondo a parlare con il vostro supervisore e farvi passare un brutto quarto d'ora.
No zob in job! Niente sesso al lavoro. Il che comprende anche tutte le manifestazioni di sessualità che racchiudono certe tristi e sfortunate frasi a cui, noi del Sud (sì, anche noi milanesi siamo del Sud!), siamo ormai avvezzi.
Adesso siete quasi pronti (almeno a evitare le più eclatanti figuracce del mio primo mese al Nord)!
Fumare è una stigmate sociale enorme. Si viene guardati come persone che hanno una dipendenza, cosa è che verissima, ma non è vissuta nello stesso modo nell'Europa del Sud.
Se siete nicotina-dipendenti (come la sottoscritta) trovatevi dei nascondigli sicuri, munitevi di collutorio e buona fortuna!
Potreste anche pensare di smettere per non sentire la pressione sociale degli sguardi altrui.
Chiaramente nessuno svedese si arrabbierà con voi o sarà scortese se chiedete di poter uscire in balcone a fumare una sigaretta, ma vi sorbirete una lunga ramanzina sui danni del fumo. Ogni santa volta.
Dopo qualche tempo potrete certamente permettervi di parlarne con i vostri amici o colleghi svedesi cercando di mettere le sigarette sullo stesso piano dell'alcol, il loro tallone d'Achille!
2. Che fate ricerca su modello animale.
Sì, faccio ricerca su dei poveri maialini. Praticamente tanti piccoli Babe. Non è questo il posto adatto per una disquisizione in materia e per convincervi che questo sia necessario per migliorare le condizioni di salute dei vostri figli, quindi evito il sermone.
Ma se state pensando che è crudele, che gli animali vanno rispettati, che bisogna trovare un'alternativa e che i ricercatori sono mostri, complimenti! La pensate come lo svedese medio.
La vita a contatto con la natura li ha resi molto sensibili e le manifestazioni (silenziose) per i diritti degli animali si sprecano.
Io ho fatto outing la sera del mio arrivo, a cena con un gruppo di amici della mia coinquilina, fiduciosa di trovarmi nel paese di ampie e luminose vedute, non sapendo di essere finita in un covo di animalisti. E' stato abbastanza tragico, ve lo assicuro.
Se siete vegani, ambientalisti, animalisti o anti-pellicce troverete la Svezia un luogo accogliente e pieno di approvazione per il vostro impegno.
Io da vegetariana che lavora coi maiali (non certo per scelta personale), mi trovo ad ammirarli e a odiarli nello stesso tempo e spero che il karma possa bilanciare la mia attività di pig-killer con i miei dieci anni di digiuno carnivoro.
L'altra faccia della medaglia? La caccia sportiva, che coinvolge un numero enorme di persone. Contraddizioni nordiche. Ma ne parliamo un'altra volta.
3. Che la Russia è un paese bellissimo.
Ricordate che la Russia ha cercato di invadere la Scandinavia più volte? Ecco, non dimenticatelo quando parlate di politica estera al brunch domenicale.
Putin è malvisto e poco tollerato, anche e soprattutto per il suo pugno di ferro sui diritti degli omosessuali. La Svezia ha estremo rispetto dei diversi orientamenti sessuali dei suoi abitanti e mal sopporta il governo russo e le sue prese di posizione.
Non ne avevo idea quando ho detto che ero entusiasta che mia sorella avesse deciso di studiare russo perché avrebbe avuto la possibilità di entrare in contatto con una cultura antica e piena di meraviglie letterarie e artistiche. Sembrava che nel bicchiere del mio interlocutore si fosse materializzata una cacca di cane!
4. Mai, mai, mai scrivere un secondo messaggio/chiamata/mail a uno svedese, se non ha risposto al primo.
Questa è la golden rule. Non dimenticatelo!
Se uno svedese non risponde al vostro messaggio o alla vostra chiamata è perché non vuole e richiamandolo lo farete sentire in imbarazzo e costretto a rispondervi. Lo metterete in difficoltà. Avrete invaso la sua privacy.
Se volete affittare una casa e il proprietario vi dice che la casa è vostra dal giorno tot senza chiedervi di firmare niente, smettete di chiamarlo per avere la riconferma ogni giorno o rischiate di perdere l'appartamento. Se ha detto sì, significa sì e non sentirà più il bisogno di comunicare con voi fino alla consegna delle chiavi. Tutto quello che farete per sentirvi rassicurati (mica che per caso ha cambiato idea!) o i messaggini che gli scriverete per ringraziarlo gli daranno immenso fastidio.
Il vostro capo non vi chiamerà mai durante il week end o fuori dall'orario lavorativo per chiedervi di controllare i dati dell'excel che gli avete mandato perché non gli tornano. Sarebbe invadere la vostra privacy. Chiamare le persone dopo le otto di sera o nei week end è invadere la privacy. Scrivere messaggi o mail che chiedono conferme è invadere la privacy. Non parliamo nemmeno di suonare il campanello della gente per un salutino.
Le persone si vedono in orari prestabiliti e con la dovuta previa organizzazione. E tra sconosciuti si comunica il minimo indispensabile.
Mi raccomando, almeno all'inizio! Poi col tempo, quando avranno imparato a conoscervi per quello che siete (italiani), potrete permettervi di invadere le loro privacy con la scusa del gap culturale.
5. Fare commenti a proposito di una collega (o di un collega).
L'unico modo per farsi licenziare in Svezia è infastidire una/un collega di lavoro. Le molestie sessuali non sono pacche sul sedere o mani nel reggiseno, qui.
La molestia è una parola o un commento sfuggito in mensa o in corridoio.
Gli svedesi sono infinitamente attenti a tutto questo. Un po' ovunque, ma soprattutto sul posto di lavoro. Lo fanno per paura, forse, più che per convinzione. Ma, come già accennavo, lo trovo molto rilassante.
Ieri sera a cena, chiacchieravo della cosa con un mio collega cileno. Sono stata io che parlando di una collega ho detto: "ma tu non pensi che sia bellissima?". Parlavamo castigliano, almeno lui non avrebbe rischiato il licenziamento e il rimpatrio per una frase detta male.
Mi ha risposto che: sì, è bellissima. Ma ha aggiunto che non è ben visto un commento del genere. Io ho sorriso a trentadue denti. Ho pensato: "Questa Svezia li frusta a dovere i virgulti di macho latino doc!".
Mi raccomando, perché la stessa cosa vale anche per le donne. Nessun commento sul vostro collega giovane e carino. Ci metterebbe un secondo a parlare con il vostro supervisore e farvi passare un brutto quarto d'ora.
No zob in job! Niente sesso al lavoro. Il che comprende anche tutte le manifestazioni di sessualità che racchiudono certe tristi e sfortunate frasi a cui, noi del Sud (sì, anche noi milanesi siamo del Sud!), siamo ormai avvezzi.
Adesso siete quasi pronti (almeno a evitare le più eclatanti figuracce del mio primo mese al Nord)!
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