Appena tornata da una partita (da spettatrice) di Roller Derby e ancora frastornata da questo momento di sport vero, sincero e femminile al cento per cento, ritorno a questa paginetta.
Quello che mi ha spinta sono state le parole del premio Nobel Tim Hunt che continuano a ronzarmi in testa, insieme a tutto quello che è successo nella mia mente subito dopo aver letto la notizia.
Per chi non avesse letto i giornali negli ultimi giorni, un premio Nobel in fisiologia e medicina, tale Tim Hunt appunto, che ha scoperto le proteine implicate nel processo di duplicazione cellulare, l'ha sparata grossa.
A quanto si dice avrebbe affermato che le donne che lavorano nella ricerca, a me piace chiamarle scienziate, dovrebbero lavorare in posti separati dai maschi che fanno lo stesso mestiere. Il signor Hunt pensa che le donne siano una distrazione sessuale e romantica dannosa per la concentrazione dei colleghi. E pare che si sia spinto oltre, affermando che il problema con le ricercatrici è che queste piangono quando il loro lavoro viene messo in discussione.
Da questa affermazione è partita una piccola campagna sociale con fotografie postate su Facebook e Twitter che ritraggono ricercatrici intente a fare il proprio lavoro negli outfit più disparati (dalle mute da sub ai camici bianchi) con l'hashtag "distractinglysexy".
Lord Hunt ha dato le dimissioni dalla cattedra, dopo la boutade, senza mai rimangiarsi le brutalità che ha detto, né scusarsi per la sua chiusura mentale.
Questa la storia.
La reazione è avvenuta per gradi. La prima fase è stata, ovviamente, quella del disgusto.
Poi ho sentito il mio solito "bisogno di agire" e allora ho postato la mia bella foto con il mio nell'hashtag (che trovo la cosa più inutile del mondo a parte in queste poche occasioni sociali...e la parola sociale non è qui intesa nell'accezione che si usa per identificare alcuni network!).
Dopo qualche ora, a rabbia sbollita, ho parlato con le mie colleghe. Ci siamo indignate insieme e mi sono sentita un po' meglio. Così come mi aveva rasserenato quel mare di fotografie, di professioniste che si prendono sul serio, ma con un'ironia invincibile sanno cosa rispondere a un vecchio trombone che piscia senza ritegno fuori dal vaso.
Un po' più serena, vado a parlare con un mio collega (uno a cui voglio bene e che reputo intelligente e brillante) della sua ricerca e mentre cerchiamo di capire come normalizzare un parametro impossibile, inizio a raccontargli della notizia, che lui non aveva letto.
Quando, con la mia faccia rilassata, gli ripeto le parole del premio Nobel, lui mi dice con molta semplicità: "Beh, è la verità! Non sai quante donne ho visto piangere sul lavoro!"
La verità. Così dice.
Io mi risveglio dal mio sogno di gloria in cui, per una volta, un cretino ha parlato ed è stato rimesso al suo posto a dovere, e salto su come un grillo. "Pensi che io sia così? Che io piangerei se venissi a dirmi che i miei risultati fanno schifo?"
"Ma tu sei una mosca bianca."
Posso dire, allora, di aver conosciuto solo mosche bianche.
A quanto pare le mosche bianche in questa storia, sono più di quelle nere.
A me non è mai successo, di vedere una collega piangere perché qualcuno le diceva che il suo lavoro non era perfetto. Mai.
Non le ho viste piangere nemmeno quando non era il lavoro ad essere messo sotto la lente d'ingrandimento, ma loro stesse.
Posso dire che ho sentito con queste orecchie tante volte dire alle mie colleghe e anche a me stessa: TU non vai bene. TU sei troppo poco aggressiva. E' il TUO atteggiamento che è sbagliato. TU non ti impegni. Raramente l'ho sentito dire a uomini.
Ma le mie colleghe non hanno pianto comunque. E se lo hanno fatto dopo, in bagno, in macchina, a casa loro, hanno fatto bene, perché fa piangere essere giudicati come persone, nella nostra interezza, quando quello che non va bene è una lettera di dimissioni o un report mensile.
E così, finito il meeting di statistica, me ne sono tornata meditabonda davanti al mio computer.
Ho avuto bisogno di un paio di amiche con cui parlarne. Mi hanno fatto ragionare su una cosa ancora più importante. Tralasciando il commento sulla distrazione sessuale, da represso vittoriano in terapia col bromuro, ci siamo concentrate sulla questione lacrime.
Qual'è il problema del pianto? Piangere è una reazione umana, che, se motivata, esprime l'interessamento della persona per la questione in ballo, la sua preoccupazione e il dispiacere per non aver raggiunto un obiettivo.
Le donne piangono più degli uomini. Ammesso che questo sia vero (ho visto uomini piangere tanto da rischiare la deidradazione), è vero anche che la società lo prevede. Lo da per scontato.
Ma poi lo rinnega quando, sul lavoro, il pianto è segno di debolezza. Anzi, peggio, di non professionalità. La rabbia invece, espressa con urla alla Rocky Balboa e pugni sul muro, è un segno di forza, di dominanza.
Una mia amica mi ha fatto pensare a quel medico che è stato ripreso mentre piangeva disperato, fuori dal pronto soccorso, piegato in due dal dolore di aver perso un paziente.
Quell'uomo è diventato immediatamente una specie di eroe nazionale, un esempio di virtù, rappresentando l'umanità che manca a tanti medici (almeno secondo i giornali che hanno commentato il video). E io penso, se fosse stata una donna medico a piangere per aver perso un paziente, cosa avrebbe detto l'opinione pubblica? Cosa avrebbe detto il suo primario? E i suoi colleghi?
Non lo so. Ma sono quasi certa che non avremmo avuto un'eroina nazionale.
Quello che un po' mi dispiace è che i ricercatori da cui un pazzo ha cercato di separarci mettendo un muro in mezzo a tutti i laboratori del mondo, non hanno sentito il bisogno di di esprimere la loro indignazione per quelle parole. Le foto su Facebook e Twitter erano di donne sorridenti e, ai miei occhi, potenti e luccicanti, ma sole. Che bello sarebbe stato se anche i ricercatori uomini si fossero prestati per questa esilarante protesta, magari facendosi fotografare in lacrime. Allora sì, la mia testa avrebbe smesso di ronzare.
Invece niente, e niente anche quando al loro fianco è seduta una collega che li aiuta a non affogare tra tabelle excel e calcoli astronomici con un sorriso sulle labbra. Le parole di Hunt e i suoi peli che escono dal naso di un buon centimetro, continuano ad essere la Verità. Quella dei testi sacri, quella che prendi così per fede in qualcosa che non hai ne voglia ne tempo di capire, quella per i poveri, quella che non ha niente a che fare con la scienza.
Beh, caro collega, io spero, dal profondo del cuore, che sia una mosca bianca anche tu!
"Mi accorsi che dovevo andare a Nord; così, senza pensarci troppo, mi misi a camminare"... Schegge di un cervello e un corpo e un cuore (di femmina) in fuga.
sabato 13 giugno 2015
martedì 3 marzo 2015
Il segreto di un infallibile successo
Sarò certamente diventata ipersensibile.
Una delle caratteristiche più salienti del posto in cui vivo (e che si scopre dopo qualche tempo di stretto contatto con la popolazione locale) è che bisogna continuamente censurarsi.
Le emozioni non hanno molto successo da queste parti. Le lamentele sono praticamente illegali. Figuriamoci le incazzature, le urla e gli schiamazzi a cui ero abituata nel Bel Paese.
Tutto in sordina. Le cose scivolano, una sull'altra. A tratti la tensione sembra crescere, sguardi di disapprovazione, gesti impercettibilmente più accentuati, un passo più spedito. Tutto si risolve in una bolla di sapone, sempre. Nessuno perde le staffe. Un'increspatura sulla superficie del mare piatto.
Sul lavoro, tutto sto zen, lo apprezzo. Ovvio che a volte vorrei urlare, ma abituarsi a chiedere quello di cui si ha bisogno (se serve anche con insistenza...insistenza tipicamente italiana che abbatterebbe qualunque muro di diniego svedese!) e soprattutto lavorare senza che Mister Fletcher di Whiplash ti urli gli improperi del Sergente di Full Metal Jacket è rilassante, fa volare via dodici ore senza una piega.
Al di fuori del lavoro il comportamento evitativo delle lamentele si trasforma in una malsana mancanza di sincerità. Se mi fai incazzare, come faccio a fartelo capire a suon di movimenti delle sopracciglia e di variazione del tono di voce dell'ordine dei microdecibel?
Io DEVO dire quello che penso.
E più lo faccio e più capisco che lo slalom intorno alle "cose che non fanno piacere a nessuno", non è uno sport solo svedese (o nordico). Mi trovo a dover giustificare sempre di più le mie opinioni, anzi no...non le mie opinioni (di quelle a nessuno, o quasi, importa nulla). Devo giustificare il fatto di averle.
Non è sempre stato così. Non perché una volta la gente veniva entusiasta a chiedermi cosa ne pensassi di questo e quello e poi stesse ad ascoltare per ore annuendo alle mie teorie dell'esistenza.
Proprio no. Ma è esistito un tempo in cui ero io a non entrare mai e poi mai in conflitto con nessuno.
Dire sempre sì, fare contenti tutti, se c'è quello che è di destra cercare di essere un po' meno di sinistra, se c'è quella che si mette la pelliccia cercare di dimenticare gli animali scuoiati e passarci sopra, se ci sono i cattolici farsi il segno della croce (che tanto male non fa). Perché lo facevo? Per piacere a tutti, logico. Per essere popolare, amata e soprattutto evitare il conflitto con chiunque.
Poi un giorno mi è stato detto che quello che facevo non era giusto. Che ero falsa, mentivo a tutti e a me stessa. Io, che avevo all'incirca 23 anni, ci ho pensato, ho elaborato la cosa e mi sono detta che era vero. Ero falsa, bugiarda, infingarda e malefica. Mi sono sentita tremendamente in colpa e ho fatto del mio meglio per cambiare.
Quando mi sono accorta che il dire ad alta voce un pensiero con un orientamento sociale/politico/religioso o areligioso, insomma schierato (e che quindi fa felice qualcuno e fa arrabbiare qualcun altro), non provocava la prematura e improvvisa morte di nessuno, la liberazione è stata tale che ho iniziato a sparare a raffica.
Avete presente il filtro del caffè? E' quello che mi manca tra cervello e bocca. Il flusso di coscienza continuo sgorga inarrestabile e lascia moltissimo scontenti e arrabbiati. Eppure io non posso più farne a meno.
La cosa che più mi stupisce e mi rende protesa verso il cucuzzolo di una montagna in una casa di legno con quattro capre e il maiale dell'espiazione, non sono le rispostacce delle persone che la pensano in modo diverso da me.
Quelle sono accettate, benvenute. Meglio se argomentate.
No. E' quella pioggia di: Rilassati! Stai serena! Mamma mia, come sei! Sei estrema! Hai rotto il cazzo! Sei acida! Sei frigida! Hai bisogno di cazzo! Ma non stai mai zitta? Ma non puoi pensare positivo? Che palle! Ma a te non piace niente?
Possiamo dire che sono "risposte di merda"?
Chi tenta di tappare la bocca a qualcun altro ha una ragione ben precisa, sempre.
E questa misteriosa ragione non sarà che parlare del fatto che Coca Cola e Nestlè siano gli sponsor di Expo o del fatto che utilizzare la parola "puttana" è, di per se, in ogni contesto, un atto di maschilismo, allontana la gente (e mi dispiace di utilizzare un termine così generale ma fare nomi e cognomi sarebbe poco cortese) che vuole "pensare positivo".
E permettersi di dire che l'atteggiamento di un collega, di un capo, di un compagno di corso di nuoto o di un amico di scampagnate domenicali è razzista/sessista/antisociale/semplicemente disonesto o scorretto, quando l'atteggiamento non ci tocca personalmente, mette tutti di fronte a qualcosa che si stava tranquillamente facendo finta di non vedere.
Inalberarsi quando qualcuno ci fa qualcosa, a noi personalmente, è sacrosanto!
Saranno tutti con voi quando vi lamenterete che i ladri vi hanno rubato l'argenteria, che uno passando col rosso vi ha quasi travolti, che il vostro capo al lavoro vi tratta male, che i vostri colleghi vi rubano la merenda, che la cassiera al supermercato si è dimenticata di sorridervi. Tutti insieme in un solo grido: che stronzi, che bastardi, pezzi di merda! Gli altri. Quelli che vi hanno fatto del male.
Su questo punto devo dare atto ai nordici. Loro, nella loro ineffabile e a tratti inutile coerenza, censurano tutte le emozioni (negative e positive, generali e sociali).
Noi del Sud invece no.
Provate a puntare il dito su un atteggiamento generale, provate a difendere una categoria a cui non appartenete, a dire che questo o quello sono atteggiamenti, contenuti televisivi, pubblicità che non vanno bene. Potete argomentare la cosa come vi pare. Non fa nessuna differenza. Nessuno vi risponderà argomentando un'opinione contraria, semplicemente vi diranno che siete noiosi, rompi scatole e che avete bisogno di una vacanza.
Sorvolo sulla probabilità che le "risposte di merda" vertano sulla frequenza con cui fate sesso o sulla elasticità delle vostre parti intime se siete una donna. Credo che sia inutile stare anche solo a discuterne.
Insomma, dire quello che si pensa è sinonimo di impopolarità. La santa inquisizione dei rilassati verrà a prendervi a costo di stanarvi nelle case in montagna che avete deciso di occupare per allontanarvi da tanto qualunquismo, nell'attesa di nuovo ordine generale. Non ne uscirete vivi. Vi faranno a pezzi a suon di lati positivi e barzellette sporche.
Dopo questo polpettone vomitato in uno stato di necessità (oggi va così!), vi scrivo quali sono le regole per un infallibile successo in quest'era di rapporti umani a singhiozzi (ci ho messo anni a elaborarle, quindi per favore apprezzate almeno la dedizione).
1. Sorridi più che puoi, soprattutto a chi non è del tuo stesso sesso;
2. Quando non capisci qualcosa, sorridi lo stesso;
3. Se qualcuno ti chiede un opinione, sii il più vago possibile;
4. Quando parli male di qualcuno assicurati che lui e i suoi amici siano a debita distanza;
5. Se ti capitasse di notare un comportamento scorretto, chiudi gli occhi e conta fino a dieci, quando li riaprirai sarà tutto finito!
Ecco.
La smetto di farvi la predica citando un'amica con una delle sue migliori massime: mai fidarsi delle acque chete!
Una delle caratteristiche più salienti del posto in cui vivo (e che si scopre dopo qualche tempo di stretto contatto con la popolazione locale) è che bisogna continuamente censurarsi.
Le emozioni non hanno molto successo da queste parti. Le lamentele sono praticamente illegali. Figuriamoci le incazzature, le urla e gli schiamazzi a cui ero abituata nel Bel Paese.
Tutto in sordina. Le cose scivolano, una sull'altra. A tratti la tensione sembra crescere, sguardi di disapprovazione, gesti impercettibilmente più accentuati, un passo più spedito. Tutto si risolve in una bolla di sapone, sempre. Nessuno perde le staffe. Un'increspatura sulla superficie del mare piatto.
Sul lavoro, tutto sto zen, lo apprezzo. Ovvio che a volte vorrei urlare, ma abituarsi a chiedere quello di cui si ha bisogno (se serve anche con insistenza...insistenza tipicamente italiana che abbatterebbe qualunque muro di diniego svedese!) e soprattutto lavorare senza che Mister Fletcher di Whiplash ti urli gli improperi del Sergente di Full Metal Jacket è rilassante, fa volare via dodici ore senza una piega.
Al di fuori del lavoro il comportamento evitativo delle lamentele si trasforma in una malsana mancanza di sincerità. Se mi fai incazzare, come faccio a fartelo capire a suon di movimenti delle sopracciglia e di variazione del tono di voce dell'ordine dei microdecibel?
Io DEVO dire quello che penso.
E più lo faccio e più capisco che lo slalom intorno alle "cose che non fanno piacere a nessuno", non è uno sport solo svedese (o nordico). Mi trovo a dover giustificare sempre di più le mie opinioni, anzi no...non le mie opinioni (di quelle a nessuno, o quasi, importa nulla). Devo giustificare il fatto di averle.
Non è sempre stato così. Non perché una volta la gente veniva entusiasta a chiedermi cosa ne pensassi di questo e quello e poi stesse ad ascoltare per ore annuendo alle mie teorie dell'esistenza.
Proprio no. Ma è esistito un tempo in cui ero io a non entrare mai e poi mai in conflitto con nessuno.
Dire sempre sì, fare contenti tutti, se c'è quello che è di destra cercare di essere un po' meno di sinistra, se c'è quella che si mette la pelliccia cercare di dimenticare gli animali scuoiati e passarci sopra, se ci sono i cattolici farsi il segno della croce (che tanto male non fa). Perché lo facevo? Per piacere a tutti, logico. Per essere popolare, amata e soprattutto evitare il conflitto con chiunque.
Poi un giorno mi è stato detto che quello che facevo non era giusto. Che ero falsa, mentivo a tutti e a me stessa. Io, che avevo all'incirca 23 anni, ci ho pensato, ho elaborato la cosa e mi sono detta che era vero. Ero falsa, bugiarda, infingarda e malefica. Mi sono sentita tremendamente in colpa e ho fatto del mio meglio per cambiare.
Quando mi sono accorta che il dire ad alta voce un pensiero con un orientamento sociale/politico/religioso o areligioso, insomma schierato (e che quindi fa felice qualcuno e fa arrabbiare qualcun altro), non provocava la prematura e improvvisa morte di nessuno, la liberazione è stata tale che ho iniziato a sparare a raffica.
Avete presente il filtro del caffè? E' quello che mi manca tra cervello e bocca. Il flusso di coscienza continuo sgorga inarrestabile e lascia moltissimo scontenti e arrabbiati. Eppure io non posso più farne a meno.
La cosa che più mi stupisce e mi rende protesa verso il cucuzzolo di una montagna in una casa di legno con quattro capre e il maiale dell'espiazione, non sono le rispostacce delle persone che la pensano in modo diverso da me.
Quelle sono accettate, benvenute. Meglio se argomentate.
No. E' quella pioggia di: Rilassati! Stai serena! Mamma mia, come sei! Sei estrema! Hai rotto il cazzo! Sei acida! Sei frigida! Hai bisogno di cazzo! Ma non stai mai zitta? Ma non puoi pensare positivo? Che palle! Ma a te non piace niente?
Possiamo dire che sono "risposte di merda"?
Chi tenta di tappare la bocca a qualcun altro ha una ragione ben precisa, sempre.
E questa misteriosa ragione non sarà che parlare del fatto che Coca Cola e Nestlè siano gli sponsor di Expo o del fatto che utilizzare la parola "puttana" è, di per se, in ogni contesto, un atto di maschilismo, allontana la gente (e mi dispiace di utilizzare un termine così generale ma fare nomi e cognomi sarebbe poco cortese) che vuole "pensare positivo".
E permettersi di dire che l'atteggiamento di un collega, di un capo, di un compagno di corso di nuoto o di un amico di scampagnate domenicali è razzista/sessista/antisociale/semplicemente disonesto o scorretto, quando l'atteggiamento non ci tocca personalmente, mette tutti di fronte a qualcosa che si stava tranquillamente facendo finta di non vedere.
Inalberarsi quando qualcuno ci fa qualcosa, a noi personalmente, è sacrosanto!
Saranno tutti con voi quando vi lamenterete che i ladri vi hanno rubato l'argenteria, che uno passando col rosso vi ha quasi travolti, che il vostro capo al lavoro vi tratta male, che i vostri colleghi vi rubano la merenda, che la cassiera al supermercato si è dimenticata di sorridervi. Tutti insieme in un solo grido: che stronzi, che bastardi, pezzi di merda! Gli altri. Quelli che vi hanno fatto del male.
Su questo punto devo dare atto ai nordici. Loro, nella loro ineffabile e a tratti inutile coerenza, censurano tutte le emozioni (negative e positive, generali e sociali).
Noi del Sud invece no.
Provate a puntare il dito su un atteggiamento generale, provate a difendere una categoria a cui non appartenete, a dire che questo o quello sono atteggiamenti, contenuti televisivi, pubblicità che non vanno bene. Potete argomentare la cosa come vi pare. Non fa nessuna differenza. Nessuno vi risponderà argomentando un'opinione contraria, semplicemente vi diranno che siete noiosi, rompi scatole e che avete bisogno di una vacanza.
Sorvolo sulla probabilità che le "risposte di merda" vertano sulla frequenza con cui fate sesso o sulla elasticità delle vostre parti intime se siete una donna. Credo che sia inutile stare anche solo a discuterne.
Insomma, dire quello che si pensa è sinonimo di impopolarità. La santa inquisizione dei rilassati verrà a prendervi a costo di stanarvi nelle case in montagna che avete deciso di occupare per allontanarvi da tanto qualunquismo, nell'attesa di nuovo ordine generale. Non ne uscirete vivi. Vi faranno a pezzi a suon di lati positivi e barzellette sporche.
Dopo questo polpettone vomitato in uno stato di necessità (oggi va così!), vi scrivo quali sono le regole per un infallibile successo in quest'era di rapporti umani a singhiozzi (ci ho messo anni a elaborarle, quindi per favore apprezzate almeno la dedizione).
1. Sorridi più che puoi, soprattutto a chi non è del tuo stesso sesso;
2. Quando non capisci qualcosa, sorridi lo stesso;
3. Se qualcuno ti chiede un opinione, sii il più vago possibile;
4. Quando parli male di qualcuno assicurati che lui e i suoi amici siano a debita distanza;
5. Se ti capitasse di notare un comportamento scorretto, chiudi gli occhi e conta fino a dieci, quando li riaprirai sarà tutto finito!
Ecco.
La smetto di farvi la predica citando un'amica con una delle sue migliori massime: mai fidarsi delle acque chete!
mercoledì 18 febbraio 2015
Cattive ragazze
Di corsa e sbuffando per il poco tempo a disposizione, vi segnalo una nuova graphic novel che ha vinto il premio Andersen 2014 per il miglior libro a fumetti. "Cattive Ragazze" scritto e disegnato da Assia Petricelli e Sergio Riccardi.
Il fumetto (sì, lo so che si chiama graphic novel e gli esperti ci tengono un sacco!) ripercorre la vita di 15 donne passate alla storia e del loro essere "cattive ragazze", con un piede di qua e uno al di là della morale corrente.
Tra le altre: Marie Curie, Miriam Makeba, Elvira Coda Notari...
Trovate qui un link per approfondire:
https://bambolediavole.wordpress.com/2015/02/16/cattive-ragazze/
E nella photogallery la copertina della novel.
In attesa di tempo libero e spensierato...vi informo che la temperatura ha superato lo zero e il sole splende nel cielo da qualche giorno, proprio quando mi sentivo pronta ad affrontare lo sci di fondo!
Il fumetto (sì, lo so che si chiama graphic novel e gli esperti ci tengono un sacco!) ripercorre la vita di 15 donne passate alla storia e del loro essere "cattive ragazze", con un piede di qua e uno al di là della morale corrente.
Tra le altre: Marie Curie, Miriam Makeba, Elvira Coda Notari...
Trovate qui un link per approfondire:
https://bambolediavole.wordpress.com/2015/02/16/cattive-ragazze/
E nella photogallery la copertina della novel.
In attesa di tempo libero e spensierato...vi informo che la temperatura ha superato lo zero e il sole splende nel cielo da qualche giorno, proprio quando mi sentivo pronta ad affrontare lo sci di fondo!
venerdì 6 febbraio 2015
Chi ha ucciso il Presidente?
In questi giorni ho nostalgia di Montalbano.
Leggo due o tre libri di Camilleri ogni anno. Ma non mi va di leggerlo qui. Fuori ci sono venti centimetri di neve e nemmeno il sole che in questi giorni splende, riesce a rendere anche lontanamente siciliana questa terra. Leggere Montalbano mangiando salmone...e come si fa?
Nell'attesa di trovarmi in un luogo più consono alle avventure del mio commissario preferito, ho cercato qualcosa di svedese. Qualcosa che somigliasse a Montalbano. Che impresa!
Si sa che, da queste parti, di polizieschi se ne intendono. Pare non sappiano scrivere altro.
Ma le storie che raccontano sono finte. Per carità, anche Montalbano lo è, ma ha una sua parte di verità. La Sicilia raccontata da un siciliano, le storie di mafia sullo sfondo, la lenta burocrazia italiana, la politica, in ogni luogo.
I gialli nordici sono asettici, spesso violenti, ma mai contestualizzati. Potrebbero essere ambientati ovunque. Avevo bisogno di qualcosa di più realistico. E cosa c'è di più realistico di qualcosa che è successo per davvero?
L'idea per una ricerchina sul web me l'ha data un paziente. Il paziente (so che non si potrebbe dire, ma è fondamentale per capire la storia) si chiama Christer Pettersson.
Immagino non dica niente nemmeno a voi. Ma ad ogni svedese vivente dice molto.
Christer Pettersson è, forse, il nome più invocato della storia della Svezia moderna.
Vi racconto la storia.
C'era una volta un Presidente. Si chiamava Olof Palme. Era il capo del partito Social Democratico Svedese, lo fu per quasi 20 anni (Attenzione: il partito di cui faceva parte si chiama Social Demokratiska ed è un partito di sinistra, femminista e interessato all politiche sull'immigrazione. NON è il partito Social Demokraterna, di estrema destra, populista e xenofobo! Credo che per il bene di tutti uno dei due dovrebbe cambiare nome!).
Olof insomma era un buono. Attivamente schierato contro la guerra in Vietnam negli anni 70, contro l'apartheid, contro il nucleare...uno che non si può non amare, almeno un pochino.
E quando i buoni muoiono tutti vogliono sapere chi è stato.
Una sera, tornando dal cinema con la moglie, Olof Palme rimase ucciso da un colpo di pistola. Così.
Avere la scorta non era la norma nella pacifica e super-sicura Svezia degli anni '80. Gli anni di piombo, gli svedesi, non hanno idea di cosa siano. Questo episodio rimarrà negli annali come l'unico del genere e acquisirà un'importanza sempre maggiore nella storia criminale svedese (che dev'essere una noia atroce).
Dopo ricerche estenuanti venne fuori il nome di un piccolo criminale di Stoccolma. Christer Pettersson (il mio paziente è uno sfortunato omonimo nato prima di tutta la losca vicenda).
Christer Pettersson, che si trovava a passare da quelle parti, fu processato e condannato all'ergastolo per l'omicidio del Presidente, fino a quando una sentenza in appello lo liberò per mancanza di prove.
La pistola che aveva ucciso il Presidente non fu mai ritrovata.
Negli anni successivi, nessun altro possibile assassino venne identificato e la Svezia vive tutt'oggi shoccata dalla sua stessa incapacità di risolvere l'unico vero crimine della sua storia.
Quello che è certo, è che Olof era un simbolo, un'icona di una politica decisa e orientata al bene comune. Una politica che è morta con lui.
Anche Christer è un simbolo. La sua faccia divenne per un periodo la protagonista della street art di Stoccolma. Il capro espiatorio della polizia, il povero, il tossicodipendente che venne utilizzato dal governo e dai media per l'operazione Ponzio Pilato.
Christer era davvero un assassino. Aveva ucciso un uomo per soldi, in un vicolo di Stoccolma. E aveva pagato il suo debito con la giustizia (come si dice).
Ma perché uccidere il Presiente?
Il movente non esisteva.
Uscito di galera Christer fece il possibile per garantirsi da vivere come poteva: denunciò la polizia svedese per diffamazione (cosa che gli fruttò 500.000 corone svedesi) e iniziò a vendere interviste nelle quali diceva tutto e il suo contrario. Confessò di aver ucciso Olof in tv, poi ritrattò sui giornali dicendo che il Presidente gli stava simpatico e che anche lui credeva nell'ideale socialista.
Insomma, approfittò appieno della visibilità che quel pasticcio gli aveva procurato.
Qualche anno dopo morì all'ospedale Karolinska di Stoccolma per un'emorragia cerebrale, pochi giorni dopo aver telefonato al figlio di Palme per chiedere di incontrarlo. Aveva informazioni importanti da riferire.
Così il capro espiatorio Christer muore proprio prima di rivelare qualcosa che si era tenuto per se per anni, o forse cercava un modo facile per farsi pubblicità e guadagnare altri soldi.
Intanto, con Christer fuori dai giochi, la ricerca dell'assassino si fece disperata e non mancarono le teorie del complotto. La cosa più facile fu cercare di accusare i neo-nazisti. Ma non ci fu modo di incriminare nessun oppositore politico. Si azzardarono ipotesi ardite. Tra le migliori, il possibile ruolo della P2 italiana (e te pareva!) nell'omicidio e il coinvolgimento del regista Ingman Bergman, il quale a causa della politica molto dura di Olof Palme in materia fiscale, fu accusato di frode a metà degli anni 70.
Il caso, dopo 25 anni di indagini, è stato archiviato nel 2011 senza un colpevole e senza nemmeno un arma del delitto.
Il nome di Olof Palme e quello di Christer Pettersson, indissolubilmente legati, probabilmente solo dalla sfortuna, sono diventati dei piccoli tabù. Cose di cui, in Svezia, è meglio non parlare troppo.
Posso dire di aver soddisfatto pienamente la mia voglia di storie dallo fondo nero.
Montalbano può aspettare a casa ancora per un po'.
Leggo due o tre libri di Camilleri ogni anno. Ma non mi va di leggerlo qui. Fuori ci sono venti centimetri di neve e nemmeno il sole che in questi giorni splende, riesce a rendere anche lontanamente siciliana questa terra. Leggere Montalbano mangiando salmone...e come si fa?
Nell'attesa di trovarmi in un luogo più consono alle avventure del mio commissario preferito, ho cercato qualcosa di svedese. Qualcosa che somigliasse a Montalbano. Che impresa!
Si sa che, da queste parti, di polizieschi se ne intendono. Pare non sappiano scrivere altro.
Ma le storie che raccontano sono finte. Per carità, anche Montalbano lo è, ma ha una sua parte di verità. La Sicilia raccontata da un siciliano, le storie di mafia sullo sfondo, la lenta burocrazia italiana, la politica, in ogni luogo.
I gialli nordici sono asettici, spesso violenti, ma mai contestualizzati. Potrebbero essere ambientati ovunque. Avevo bisogno di qualcosa di più realistico. E cosa c'è di più realistico di qualcosa che è successo per davvero?
L'idea per una ricerchina sul web me l'ha data un paziente. Il paziente (so che non si potrebbe dire, ma è fondamentale per capire la storia) si chiama Christer Pettersson.
Immagino non dica niente nemmeno a voi. Ma ad ogni svedese vivente dice molto.
Christer Pettersson è, forse, il nome più invocato della storia della Svezia moderna.
Vi racconto la storia.
C'era una volta un Presidente. Si chiamava Olof Palme. Era il capo del partito Social Democratico Svedese, lo fu per quasi 20 anni (Attenzione: il partito di cui faceva parte si chiama Social Demokratiska ed è un partito di sinistra, femminista e interessato all politiche sull'immigrazione. NON è il partito Social Demokraterna, di estrema destra, populista e xenofobo! Credo che per il bene di tutti uno dei due dovrebbe cambiare nome!).
Olof insomma era un buono. Attivamente schierato contro la guerra in Vietnam negli anni 70, contro l'apartheid, contro il nucleare...uno che non si può non amare, almeno un pochino.
E quando i buoni muoiono tutti vogliono sapere chi è stato.
Una sera, tornando dal cinema con la moglie, Olof Palme rimase ucciso da un colpo di pistola. Così.
Avere la scorta non era la norma nella pacifica e super-sicura Svezia degli anni '80. Gli anni di piombo, gli svedesi, non hanno idea di cosa siano. Questo episodio rimarrà negli annali come l'unico del genere e acquisirà un'importanza sempre maggiore nella storia criminale svedese (che dev'essere una noia atroce).
Dopo ricerche estenuanti venne fuori il nome di un piccolo criminale di Stoccolma. Christer Pettersson (il mio paziente è uno sfortunato omonimo nato prima di tutta la losca vicenda).
Christer Pettersson, che si trovava a passare da quelle parti, fu processato e condannato all'ergastolo per l'omicidio del Presidente, fino a quando una sentenza in appello lo liberò per mancanza di prove.
La pistola che aveva ucciso il Presidente non fu mai ritrovata.
Negli anni successivi, nessun altro possibile assassino venne identificato e la Svezia vive tutt'oggi shoccata dalla sua stessa incapacità di risolvere l'unico vero crimine della sua storia.
Quello che è certo, è che Olof era un simbolo, un'icona di una politica decisa e orientata al bene comune. Una politica che è morta con lui.
Anche Christer è un simbolo. La sua faccia divenne per un periodo la protagonista della street art di Stoccolma. Il capro espiatorio della polizia, il povero, il tossicodipendente che venne utilizzato dal governo e dai media per l'operazione Ponzio Pilato.
Christer era davvero un assassino. Aveva ucciso un uomo per soldi, in un vicolo di Stoccolma. E aveva pagato il suo debito con la giustizia (come si dice).
Ma perché uccidere il Presiente?
Il movente non esisteva.
Uscito di galera Christer fece il possibile per garantirsi da vivere come poteva: denunciò la polizia svedese per diffamazione (cosa che gli fruttò 500.000 corone svedesi) e iniziò a vendere interviste nelle quali diceva tutto e il suo contrario. Confessò di aver ucciso Olof in tv, poi ritrattò sui giornali dicendo che il Presidente gli stava simpatico e che anche lui credeva nell'ideale socialista.
Insomma, approfittò appieno della visibilità che quel pasticcio gli aveva procurato.
Qualche anno dopo morì all'ospedale Karolinska di Stoccolma per un'emorragia cerebrale, pochi giorni dopo aver telefonato al figlio di Palme per chiedere di incontrarlo. Aveva informazioni importanti da riferire.
Così il capro espiatorio Christer muore proprio prima di rivelare qualcosa che si era tenuto per se per anni, o forse cercava un modo facile per farsi pubblicità e guadagnare altri soldi.
Intanto, con Christer fuori dai giochi, la ricerca dell'assassino si fece disperata e non mancarono le teorie del complotto. La cosa più facile fu cercare di accusare i neo-nazisti. Ma non ci fu modo di incriminare nessun oppositore politico. Si azzardarono ipotesi ardite. Tra le migliori, il possibile ruolo della P2 italiana (e te pareva!) nell'omicidio e il coinvolgimento del regista Ingman Bergman, il quale a causa della politica molto dura di Olof Palme in materia fiscale, fu accusato di frode a metà degli anni 70.
Il caso, dopo 25 anni di indagini, è stato archiviato nel 2011 senza un colpevole e senza nemmeno un arma del delitto.
Il nome di Olof Palme e quello di Christer Pettersson, indissolubilmente legati, probabilmente solo dalla sfortuna, sono diventati dei piccoli tabù. Cose di cui, in Svezia, è meglio non parlare troppo.
Posso dire di aver soddisfatto pienamente la mia voglia di storie dallo fondo nero.
Montalbano può aspettare a casa ancora per un po'.
mercoledì 21 gennaio 2015
Han, Hon, Hen
Lui, lei, l'altro.
Nel mio bagno c'è un cartello che dice: WC (han, hen, hon).
Non avevo idea di cosa volesse dire, ma ero arrivata a capire che c'era un pronome di troppo.
Nel 2012 la Svezia, dopo un lungo dibattito, ha deciso di introdurre il pronome neutro.
Se "han" vuol dire "lui" e hon vuol dire "lei" (ovviamente non poteva che essere impossibile indovinare), "hen" è il pronome usato quando il sesso di qualcuno che viene citato non è conosciuto, o se il sesso di un individuo non è chiaro, o ancora meglio, se non è importante nel contesto in cui si sta discutendo.
Kiv och Monsterhund (Kiv e il cane mostro) è il primo libro per bambini scritto con hen. Kiv non è ne maschio ne femmina, perché come tutti i bambini di sei o sette anni non ha nessun carattere sessuale secondario sviluppato e con un cappellino in testa (come quello a righe verdi che indossa Kiv) nessuno potrebbe essere sicuro che si tratti di un bambino o di una bambina. Così è un personaggio neutro in cui tutti si possono identificare. E anche il suo cane mostro è neutro. Chi lo conosce il sesso dei mostri, in fondo?
Ma libri per bambini a parte...
Immaginatevi una bella lettera di presentazione per un lavoro dove si parla di voi come di un essere senza sesso. Che liberazione!
Oltre al pronome neutro, sono stati approvati in Svezia oltre 170 nomi neutri. Nomi che non sono né maschili, né femminili e il cui compito è quello di ridurre la discriminazione e smontare un po' il circo che si costruisce intorno ai generi. Smantellare i ruoli, insomma.
"Hen" è la gallina che ha fatto impazzire la Svezia. Non tutti sono stati soddisfatti di questa nuova trovata, ma la pollastrella senza sesso è entrata nella routine dei vichinghi senza troppi intoppi.
Da bravi cittadini diligenti, gli svedesi, insegnano il pronome neutro ai corsi per stranieri, introducendo una certa confusione e una possibilità in più di sbagliare.
Non potevo che apostrofare con un bel pronome neutro il mio compagno di banco, un uomo del Kuwait orgogliosissimo della suo genere!
Mi chiedevo in italiano come sarebbe? Elli? Loi?
Loi è meglio. Sembra quasi un nomignolo.
"Credo che loi sia un buon candidato per questo lavoro, ha grandi potenzialità e un'ottima preparazione."
Con una selezione dei curricula senza sesso, forse ci sarebbe la possibilità di limitare la discriminazione almeno nelle fasi preliminari della scelta dei candidati per qualsiasi lavoro.
E poi, e poi...e poi è chiaro che non basta un pronome. Quella all'eliminazione della discriminazione di genere è un'attitudine, qualcosa che permea i piccoli gesti, quelli quotidiani, quelli di cui nessuno si accorge ma che sono gli unici che fanno davvero la differenza.
Intanto mi accontento di andare in libreria a cercare Kiv e il suo cane mostro! (per vedere la copertina vai alla photogallery)
Nel mio bagno c'è un cartello che dice: WC (han, hen, hon).
Non avevo idea di cosa volesse dire, ma ero arrivata a capire che c'era un pronome di troppo.
Nel 2012 la Svezia, dopo un lungo dibattito, ha deciso di introdurre il pronome neutro.
Se "han" vuol dire "lui" e hon vuol dire "lei" (ovviamente non poteva che essere impossibile indovinare), "hen" è il pronome usato quando il sesso di qualcuno che viene citato non è conosciuto, o se il sesso di un individuo non è chiaro, o ancora meglio, se non è importante nel contesto in cui si sta discutendo.
Kiv och Monsterhund (Kiv e il cane mostro) è il primo libro per bambini scritto con hen. Kiv non è ne maschio ne femmina, perché come tutti i bambini di sei o sette anni non ha nessun carattere sessuale secondario sviluppato e con un cappellino in testa (come quello a righe verdi che indossa Kiv) nessuno potrebbe essere sicuro che si tratti di un bambino o di una bambina. Così è un personaggio neutro in cui tutti si possono identificare. E anche il suo cane mostro è neutro. Chi lo conosce il sesso dei mostri, in fondo?
Ma libri per bambini a parte...
Immaginatevi una bella lettera di presentazione per un lavoro dove si parla di voi come di un essere senza sesso. Che liberazione!
Oltre al pronome neutro, sono stati approvati in Svezia oltre 170 nomi neutri. Nomi che non sono né maschili, né femminili e il cui compito è quello di ridurre la discriminazione e smontare un po' il circo che si costruisce intorno ai generi. Smantellare i ruoli, insomma.
"Hen" è la gallina che ha fatto impazzire la Svezia. Non tutti sono stati soddisfatti di questa nuova trovata, ma la pollastrella senza sesso è entrata nella routine dei vichinghi senza troppi intoppi.
Da bravi cittadini diligenti, gli svedesi, insegnano il pronome neutro ai corsi per stranieri, introducendo una certa confusione e una possibilità in più di sbagliare.
Non potevo che apostrofare con un bel pronome neutro il mio compagno di banco, un uomo del Kuwait orgogliosissimo della suo genere!
Mi chiedevo in italiano come sarebbe? Elli? Loi?
Loi è meglio. Sembra quasi un nomignolo.
"Credo che loi sia un buon candidato per questo lavoro, ha grandi potenzialità e un'ottima preparazione."
Con una selezione dei curricula senza sesso, forse ci sarebbe la possibilità di limitare la discriminazione almeno nelle fasi preliminari della scelta dei candidati per qualsiasi lavoro.
E poi, e poi...e poi è chiaro che non basta un pronome. Quella all'eliminazione della discriminazione di genere è un'attitudine, qualcosa che permea i piccoli gesti, quelli quotidiani, quelli di cui nessuno si accorge ma che sono gli unici che fanno davvero la differenza.
Intanto mi accontento di andare in libreria a cercare Kiv e il suo cane mostro! (per vedere la copertina vai alla photogallery)
martedì 13 gennaio 2015
Pattini d'Argento
Non era anche il titolo di un romanzo di formazione di quelli tragici e tristi? Quello del bambino olandese che rinuncia a partecipare alla corsa sui pattini per pagare il medico che salverà la vita di suo padre?
Ecco, ha fatto bene, a saltare la corsa sui pattini!
Pattinare può rivelarsi insidioso.
Non parlo delle pattinate da Sud d'Europa. Una bella piazza addobbata per Natale, un sicuro e confortante spazio chiuso ricoperto di ghiaccio, un bar con la cioccolata calda a un tiro di schioppo.
Eh no! Scordatevi tutti i comfort.
Se le cose sono "alla svedese" significa che sono ideate per infliggere sofferenza.
In primis, in Svezia non si pattina in città. Nossignore!
Si pattina sul lago ghiacciato! Perché creare il ghiaccio quando ce n'è ovunque?
Secondo: se vi presentate con i jeans e il parka da passeggio sappiate per lo meno che sarete gli unici.
Per pattinare ci si veste di tutto punto!
Terzo: niente cioccolata a portata di mal di piedi, niente bar, niente esercizi commerciali in generale. In the middle of nowhere, mi sembra l'espressione che meglio descrive la condizione del pattinatore nordico.
Ultimo punto, ma il più importante: il senso unico. Attenzione: il lago è grande, non è possibile ripulirlo su tutta la sua superficie, così le macchinine spazzaneve puliscono una pista che fa il giro completo del lago. A senso unico!!
Quante volte all'anno andate a pattinare? Una? Di solito la seconda di Natale, con un bel cappone ripieno e una fetta di panettone alla crema nella pancia? Ecco! Quindi se il lago misura 5 km sul lato lungo e più o meno 3 sul lato corto, dubito che riuscirete nell'impresa del giro completo.
Non credete agli svedesi che vi dicono che "ci vorrà un'oretta", ma li avete visti?? Sono alti due metri, con le spalle più larghe di voi sdraiati e hanno ai piedi dei pattini che sembrano due transformers! Non siate sciocchi!
Sappiate che dovrete mangiare al freddo, forse sotto la neve e che la vostra dannata cioccolata la potrete bere solo quando sarete di nuovo a casa vostra e che non dovete farvi prendere dal panico se qualcuno, guardando l'orologio, osserva: ci rimane soltanto un'ora di luce!
Apocalypse Now!
State sereni e non chiamate l'elisoccorso troppo presto!
Questi piccoli accorgimenti avrebbero già dovuto farvi passare la voglia. Nel caso ci fosse qualche temerario, vi riporto le cinque regole degli svedesi sul pattinaggio sul ghiaccio.
Tenetevi forte!
1. Prima di decidere dove recarvi per la vostra domenica di sport estremo consultate l'apposito sito web a proposito della condizione del ghiaccio di tutti i laghi prattinabili della Svezia. Io l'ho cercato per un'ora. Poi ho lasciato stare. Chiedete a uno svedese qualunque e giurerà che il sito esiste!
2. Non andare mai da soli! Se il ghiaccio sul lago si rompe, meglio ci sia qualcuno a guardarvi affogare piuttosto che farlo senza nemmeno un selfie!
3. Saggiate il ghiaccio! Con un bastone battete sulla superficie del ghiaccio per cercare di capire quanto sia spesso, prima di mettere le lame sul lago. Credetemi, non ne avrete idea anche dopo averlo fatto.
4. Portate con voi degli oggetti appuntiti da tenere a portata di mano per aggrapparvi fermamente al ghiaccio nel caso quest'ultimo si rompesse regalandovi un bagno tonificante.
Tutti gli svedesi hanno due di questi oggetti appuntiti di metallo agganciati attorno al collo e giurano siano indispensabili. Portatevi anche una corda, da lanciare ai vostri amici che, radunati intorno al buco in cui state sguazzando, proveranno a tirarvi fuori, se ne avranno il coraggio.
5. Scegliete bene i vostri pattini. Sì, perché non ce n'è un solo tipo. Te pareva?
Ci sono, per semplificare, principalmente due tipi di pattini. A lama lunga, i più gettonati perché con quelli si va più veloce (come se la velocità fosse ciò che voglio ottenere la domenica pomeriggio con gli amici!) e quelli da hockey, quelli a cui siamo abituati, meno veloci sulle lunghe distanze ma più agili.
La buona notizia è che noleggiarli in città costa 5 euro e si trovano occasioni uniche sui siti di oggetti di seconda mano, potete trovare il vostro paio per meno di 10 euro!
Dimmi che pattini usi e ti dirò chi sei!
Il mio consiglio è di portare un po' di italianità in the middle of nowhere.
Arrivare con vestiti da città, ignorare quelli che sfrecciano a cento all'ora guardando solo avanti e apparecchiare alla meglio un bel pic nic nella neve, con tanto di lasagna e parmigiana nella borsa termica! Velocità a parte, il paesaggio è davvero mozzafiato!
Ecco, ha fatto bene, a saltare la corsa sui pattini!
Pattinare può rivelarsi insidioso.
Non parlo delle pattinate da Sud d'Europa. Una bella piazza addobbata per Natale, un sicuro e confortante spazio chiuso ricoperto di ghiaccio, un bar con la cioccolata calda a un tiro di schioppo.
Eh no! Scordatevi tutti i comfort.
Se le cose sono "alla svedese" significa che sono ideate per infliggere sofferenza.
In primis, in Svezia non si pattina in città. Nossignore!
Si pattina sul lago ghiacciato! Perché creare il ghiaccio quando ce n'è ovunque?
Secondo: se vi presentate con i jeans e il parka da passeggio sappiate per lo meno che sarete gli unici.
Per pattinare ci si veste di tutto punto!
Terzo: niente cioccolata a portata di mal di piedi, niente bar, niente esercizi commerciali in generale. In the middle of nowhere, mi sembra l'espressione che meglio descrive la condizione del pattinatore nordico.
Ultimo punto, ma il più importante: il senso unico. Attenzione: il lago è grande, non è possibile ripulirlo su tutta la sua superficie, così le macchinine spazzaneve puliscono una pista che fa il giro completo del lago. A senso unico!!
Quante volte all'anno andate a pattinare? Una? Di solito la seconda di Natale, con un bel cappone ripieno e una fetta di panettone alla crema nella pancia? Ecco! Quindi se il lago misura 5 km sul lato lungo e più o meno 3 sul lato corto, dubito che riuscirete nell'impresa del giro completo.
Non credete agli svedesi che vi dicono che "ci vorrà un'oretta", ma li avete visti?? Sono alti due metri, con le spalle più larghe di voi sdraiati e hanno ai piedi dei pattini che sembrano due transformers! Non siate sciocchi!
Sappiate che dovrete mangiare al freddo, forse sotto la neve e che la vostra dannata cioccolata la potrete bere solo quando sarete di nuovo a casa vostra e che non dovete farvi prendere dal panico se qualcuno, guardando l'orologio, osserva: ci rimane soltanto un'ora di luce!
Apocalypse Now!
State sereni e non chiamate l'elisoccorso troppo presto!
Questi piccoli accorgimenti avrebbero già dovuto farvi passare la voglia. Nel caso ci fosse qualche temerario, vi riporto le cinque regole degli svedesi sul pattinaggio sul ghiaccio.
Tenetevi forte!
1. Prima di decidere dove recarvi per la vostra domenica di sport estremo consultate l'apposito sito web a proposito della condizione del ghiaccio di tutti i laghi prattinabili della Svezia. Io l'ho cercato per un'ora. Poi ho lasciato stare. Chiedete a uno svedese qualunque e giurerà che il sito esiste!
2. Non andare mai da soli! Se il ghiaccio sul lago si rompe, meglio ci sia qualcuno a guardarvi affogare piuttosto che farlo senza nemmeno un selfie!
3. Saggiate il ghiaccio! Con un bastone battete sulla superficie del ghiaccio per cercare di capire quanto sia spesso, prima di mettere le lame sul lago. Credetemi, non ne avrete idea anche dopo averlo fatto.
4. Portate con voi degli oggetti appuntiti da tenere a portata di mano per aggrapparvi fermamente al ghiaccio nel caso quest'ultimo si rompesse regalandovi un bagno tonificante.
Tutti gli svedesi hanno due di questi oggetti appuntiti di metallo agganciati attorno al collo e giurano siano indispensabili. Portatevi anche una corda, da lanciare ai vostri amici che, radunati intorno al buco in cui state sguazzando, proveranno a tirarvi fuori, se ne avranno il coraggio.
5. Scegliete bene i vostri pattini. Sì, perché non ce n'è un solo tipo. Te pareva?
Ci sono, per semplificare, principalmente due tipi di pattini. A lama lunga, i più gettonati perché con quelli si va più veloce (come se la velocità fosse ciò che voglio ottenere la domenica pomeriggio con gli amici!) e quelli da hockey, quelli a cui siamo abituati, meno veloci sulle lunghe distanze ma più agili.
La buona notizia è che noleggiarli in città costa 5 euro e si trovano occasioni uniche sui siti di oggetti di seconda mano, potete trovare il vostro paio per meno di 10 euro!
Dimmi che pattini usi e ti dirò chi sei!
Il mio consiglio è di portare un po' di italianità in the middle of nowhere.
Arrivare con vestiti da città, ignorare quelli che sfrecciano a cento all'ora guardando solo avanti e apparecchiare alla meglio un bel pic nic nella neve, con tanto di lasagna e parmigiana nella borsa termica! Velocità a parte, il paesaggio è davvero mozzafiato!
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