Una mia amica femminista (nel senso che è impegnata all'interno del movimento, un'attivista insomma), mi ha scritto un messaggio la settimana scorsa che diceva così: "Ti prego, dimmi che non sono tutti deficienti anche lì!".
Si riferiva agli uomini.
Non sapevo come fare a deluderla, visto che dovevo. Ho risposto un evasivo: "I deficienti sono come il curry nella cucina indiana!"
Non me ne vogliano gli uomini che leggono il blog (e credo siano, forse, due). Il "tutti deficienti" della mia amica non significava tutti! Significava tanti. E vi assicuro che quando stai cercando un compagno di vita (o almeno un compagno di serate piacevoli) e accetti svariati appuntamenti semi alla cieca, la sensazione imperante è che non sia rimasto nemmeno un essere di sesso maschile con QI nel range di normalità sull'intera crosta terrestre.
Quello che volevo rispondere alla mia amica è che non ci sono grosse differenze, questo volevo dire.
L'attitudine "educata e posata" dello svedese medio, cela un po' di più la "deficienza", ma un occhio allenato vede i nodi prima che arrivino al pettine.
Domenica mattina vado a nuotare. Nuoto nella corsia media. C'è anche una corsia lenta, dove ci sono le signore di una certa età che più che nuotare sguazzano, e una veloce dove si immergono solo i veri vichinghi, non so se mi spiego. Io sto nel mezzo, che mi sembra una buona soluzione.
Nella mia corsia nuotano tutte le domeniche le stesse facce. Di queste facce tre sono maschili. Tutti e tre fanno a gara a chi ce l'ha più lungo, più grosso e più bello. Si superano anche se nuotano esattamente alla stessa velocità, mi superano perché stare dietro a una donna nonsiamai, si atteggiano con la faccia corrucciata alla Rosolino tutto il tempo.
Questo voglio dire quando scrivo che non c'è differenza.
Sguardi di derisione, disapprovazione, addirittura disprezzo, volano anche in questa parte d'Europa. Ma con vaghezza e affettazione.
Il che rende il tutto davvero più sopportabile. Non dico che sia meglio o peggio. Dico solo che vederlo meno mi fa arrabbiare di meno. Nel mio quotidiano.
Una cosa che non avrei mai immaginato e che distingue i vichinghi in modo molto sensibile dal resto degli uomini di mia conoscenza (provenienti da mezza Europa e più) è l'attaccamento ad un codice di comportamento sociale a tratti noioso e a tratti entusiasmante.
Provate ad andare a cena con uno svedese(per evitare guerre civili puntualizzo che sono andata a cena con un gruppo di svedesi, non con uno solo)!
Non importa quanto siete veloci, lui sarà più veloce di voi a: spostarvi la sedia per farvi sedere, per farvi alzare, versarvi l'acqua, il vino, la birra, raccogliervi il tovagliolo che vi è caduto e prendere la vostra giacca dal guardaroba per aiutarvi a indossarla. Non prenderà la forchetta in mano fino a che non sarete voi le prime a farlo e brinderà alla vostra salute milioni di volte.
Una ragazza italiana che ho conosciuto qui, ha accettato l'invito di un ragazzo svedese per un picnic. Il biondino si è presentato con uno zaino da 16 litri che conteneva nell'ordine: due bicchieri flut e una bottiglia da 50 ml di champagne per l'aperitivo, tartine, torte salate e risotto vegan (perché la mia amica lo è, non lui!) per il pranzo, fornellino da campo, caffettiera, caffè e biscottini, tovaglia, plaid e un maglione in più nel caso lei avesse avuto freddo. Ce stava a provà? No!
Come da noi ci sono ferrei ruoli che non riusciamo a mollare, così in Svezia. Solo che quelli svedesi mi sembrano più vantaggiosi, alla prima occhiata.
Mi rendo conto che si tratti di una mera questione di etichetta e che non abbia niente a che vedere col rispetto vero e proprio e tantomeno con l'affetto o l'amore (quando mai!), ma vi assicuro che è piacevole. Diciamo rilassante.
Non lo trovo nemmeno anti-femminista. La gentilezza non è anti niente, insomma!
Ecco, se potessi rispondere ancora al messaggio della mia amica le direi che la deficienza ha la stessa prevalenza nella popolazione, ma che con le gambe sotto il tavolo e un tortino di patate di fronte, te ne dimentichi per mezz'ora.
"Mi accorsi che dovevo andare a Nord; così, senza pensarci troppo, mi misi a camminare"... Schegge di un cervello e un corpo e un cuore (di femmina) in fuga.
martedì 30 settembre 2014
domenica 28 settembre 2014
I pugni in tasca
A Uppsala alle sette di mattina non vola una mosca.
Niente clacson, niente urla.
Milano alle sette di mattina è già un casino. Mi vengono in
mente scene da guerra civile per un parcheggio, minacce di morte al semaforo,
dita medie alzate e sventolate come un vessillo. Un piccolo disastro quotidiano,
che si ripete, come uno spettacolo teatrale di successo, anche poco prima di
cena.
Lasciando perdere il fatto che a Uppsala ci sono un
ventesimo delle macchine che Milano contiene, il caos italiano non sembra
riproporsi, in terra scandinava, nemmeno nelle dovute proporzioni.
Silenzio, macchine elettriche che manco le senti arrivare,
ciclisti che sembrano ninja, passanti che non parlano al telefono se non
sottovoce.
Se uno si addormenta a un semaforo, la colonna di macchine
non fa una piega e prima di dare una piccola, innocente e rapidissima toccatina
al clacson passano per lo meno tre minuti. Centottanta secondi! Sono
un’eternità alle sette di mattina! Sono il tempo che ci metto a vestirmi e truccarmi!
La flemma da quasi sui nervi.
Mi chiedevo come potessero essere così sereni, sempre.
La spiegazione mi è arrivata qualche giorno fa. Da uno
svedese. Gli chiedo perché non abbassano il finestrino e urlano il corrispettivo
di: “Li mortacci tua!!” uppsalese. La risposta è: noi mettiamo il pugno
in tasca. Chiudiamo il pugno e lo mettiamo via. Mettiamo via la nostra rabbia.
La prima reazione è: che bravi! Ma dopo 5 minuti che
ci penso, dico ad voce alta: ma non fa per niente bene!
Mettere via i pugni chiusi non è salutare. Nonostante non
l’abbia mai fatto (la mia rabbia è sempre ben visibile e se anche non lo fosse
per l’oggetto della stessa, lo sarà per il bagno in cui andrò a emettere un
urlo alla tarzan o per la porta che sbatterò a cento all’ora), credo che
tenersi la rabbia di un’intera giornata, sia come portare in giro un macigno.
Figuriamoci quella di una vita intera! Perché non è che poi gli svedesi vadano
a tirare di boxe per sfogarsi eh!
Continuano a mettersi in tasca i pugni, come dei sassolini
raccolti per strada.
Mi chiedevo quanto questo ha a che fare con i problemi
sociali che il governo svedese sta affrontando in modo eccellente da molti
anni. L’alcolismo, il tasso di suicidi e la violenza sulle donne. Sì perché i
numeri sulla violenza in Svezia sono sovrapponibili a quelli di tutto il resto
d’Europa.
Non molte settimane fa l’Internazionale pubblicava una mappa
del tasso di suicidi nel mondo. A parte le insospettabili India e Australia con
un tasso altissimo, la cosa che mi ha stupito è stato vedere che la Svezia ha
un tasso di suicidi più alto del resto della Scandinavia.
Mi sono chiesta perché. Qui è tutto perfetto. Intendo dire
che la gente vive bene, con una minuscola fetta di popolazione in stato
d’indigenza e che comunque viene accudita da Mamma Svezia in modo ineccepibile.
L’azienda per cui lavori ti paga la palestra, se hai figli vieni letteralmente
coperto d’oro, le vacanze sono un diritto talmente sacrosanto che ne hanno il
doppio rispetto a quelle di noi poveri europei del sud e le “cose da fare”,
soprattutto per gli autoctoni e soprattutto dopo i trenta sono talmente tante
che c’è l’imbarazzo della scelta.
State pensando al clima, giusto? Io alla faccenda del clima
ci credo fino a un certo punto. Certo, l’inverno qui dev’essere duro e lungo.
Quando ci arrivo poi ve lo racconto. Ma anche la Finlandia e la Norvegia
passano attraverso il buio, ogni anno. Però si suicidano di meno.
E se fossero i pugni in tasca?
E se fosse rabbia repressa che lentamente corrode gli argini
e straripa?
A proposito di violenza sulle donne i numeri fanno
abbastanza schifo per essere quelli di un paese il cui governo è suddiviso
esattamente a metà tra i due generi.
La famosa trilogia di Stieg Larsson metteva i puntini sulla
questione, con numeri alla mano. Ho controllato. Sono i nostri stessi identici
numeri.
A me i numeri piacciono, soprattutto quando dentro ci vedo
un significato. E questi numeri fanno venire voglia di trovare un perché.
Sarà che la scena che mi passa nella testa ogni volta che ci penso non mi dà pace. Lei, amministratore delegato della Volvo (o
dell’Ikea, se vi piace di più) che torna a casa dopo un’importante riunione con
i vertici della filiale giapponese e viene presa a pugni dal marito, Professore associato all'Università. Questa
scena faccio fatica a mandarla giù. Perché ho sempre creduto che l’educazione e
la cultura fossero sinonimo di dirittura morale. Sbagliato! Più che sbagliato!
Pare che questi pugni in tasca ogni tanto, gli svedesi, li
tirino fuori e pare che come da copione dall’alba dei tempi, li agitino dove è
facile farlo: a casa loro.
Niente di diverso da quello che succede a casa nostra. Quasi
quasi, per una volta, concedo al mio vergognoso paese un’attenuante. Meno
cultura e più povertà. Ma non c’è da andarci troppo a testa alta.
Chi ha intenzione di creare un business e ha voglia di
viaggiare potrebbe venire qui e inventarsi un corso di canalizzazione della rabbia. Titolo: “Fuori i pugni dalle tasche!”. La foresta sarebbe un posto
ideale come location. Si può urlare quanto si vuole e per sedare il fiume di
odio c’è sempre qualche lago ghiacciato nelle vicinanze.
p.s. Il post è un po’ tetro, mi rendo conto. Non sono ancora
stata inhiottita dallo spirito gotico del posto, ho semplicemente pensato a
questo in questi ultimi giorni. Prometto un post sui cavallini di legno
decorati per farmi perdonare… J
venerdì 26 settembre 2014
Lettere per chi?
Non ho mai sentito il bisogno di avere un destinatario per scrivere. Era sufficiente produrre qualcosa di concreto.
Non sono molto spirituale, non riesco ad accontentarmi del pensiero. Se non è tutto nero su bianco, mi sembra di non avere combinato niente. Non mi basta pensare. Non più da un po'.
Se poi consideriamo anche la piccola ossessione della catalogazione...beh...si fa presto a capire che dovevo raccontare e circoscrivere, spezzettare, etichettare, ordinare.
Quando sono arrivata al Nord pensavo che avrei avuto tutto il tempo del mondo. Nel silenzio della neve e nell'abbraccio di un caffè lunghissimo.
Invece il tempo è rosicchiato dal lavoro e dalla scoperta e poco ne rimane per mettere a posto. Ma devo!
Queste lettere da Uppsala sono per le mie amiche.
Oggi mi sembra che ogni sforzo teso a fare i conti con la mia condizione di donna, si compia qui. Al Nord. Dove, dicono, ci sia posto per una libertà tanto radicata da essere data per scontata.
Non è vero! E' una grande illusione e bastano pochi giorni per togliersi il velo dagli occhi.
Posso dire, dopo aver scalato il mappamondo fino quasi al circolo polare che la parità di genere non esiste.
Certo che qui è meglio! Molto meglio! Ma non è abbastanza.
Per questo è ancora tempo di parlare di femminismo, di spazio d'azione e dialogo.
Per questo le lettere da Uppsala sono per le amiche.
E' un po' come se le invitassi a casa per un tè e mostrassi loro il mio appartamento, la libreria, la cucina, il comodo divano, e poi il letto (rigorosamente disfatto!), il bagno disordinato.
Seguo il percorso, attraverso le mie stanze. Uppsala è il mio pretesto, il punto di arrivo e la mia nuova partenza.
Le lettere da Uppsala sono un ringraziamento vivo e sincero a tutte le donne che ho conosciuto e con cui ho condiviso ore di dialogo sfrenato sulla ricerca di una soluzione per noi stesse, tra gelati sulle panchine fredde di un ospedale, dolci merende, birre su tavoli lerci e cene vegane.
Grazie per avermi portata per mano fin qui.
Alle mie amiche, dunque...
Non sono molto spirituale, non riesco ad accontentarmi del pensiero. Se non è tutto nero su bianco, mi sembra di non avere combinato niente. Non mi basta pensare. Non più da un po'.
Se poi consideriamo anche la piccola ossessione della catalogazione...beh...si fa presto a capire che dovevo raccontare e circoscrivere, spezzettare, etichettare, ordinare.
Quando sono arrivata al Nord pensavo che avrei avuto tutto il tempo del mondo. Nel silenzio della neve e nell'abbraccio di un caffè lunghissimo.
Invece il tempo è rosicchiato dal lavoro e dalla scoperta e poco ne rimane per mettere a posto. Ma devo!
Queste lettere da Uppsala sono per le mie amiche.
Oggi mi sembra che ogni sforzo teso a fare i conti con la mia condizione di donna, si compia qui. Al Nord. Dove, dicono, ci sia posto per una libertà tanto radicata da essere data per scontata.
Non è vero! E' una grande illusione e bastano pochi giorni per togliersi il velo dagli occhi.
Posso dire, dopo aver scalato il mappamondo fino quasi al circolo polare che la parità di genere non esiste.
Certo che qui è meglio! Molto meglio! Ma non è abbastanza.
Per questo è ancora tempo di parlare di femminismo, di spazio d'azione e dialogo.
Per questo le lettere da Uppsala sono per le amiche.
E' un po' come se le invitassi a casa per un tè e mostrassi loro il mio appartamento, la libreria, la cucina, il comodo divano, e poi il letto (rigorosamente disfatto!), il bagno disordinato.
Seguo il percorso, attraverso le mie stanze. Uppsala è il mio pretesto, il punto di arrivo e la mia nuova partenza.
Le lettere da Uppsala sono un ringraziamento vivo e sincero a tutte le donne che ho conosciuto e con cui ho condiviso ore di dialogo sfrenato sulla ricerca di una soluzione per noi stesse, tra gelati sulle panchine fredde di un ospedale, dolci merende, birre su tavoli lerci e cene vegane.
Grazie per avermi portata per mano fin qui.
Alle mie amiche, dunque...
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